“Orpheus Groove”: tra mito e sperimentazione sonora

Sul palco del Teatro Bellini di Napoli, dall’11 al 16 febbraio, prende vita “Orpheus Groove”, spettacolo ideato e diretto da Annalisa D’Amato, un’opera intensa e sperimentale che rilegge il mito di Orfeo ed Euridice. Euridice, la ninfa rapita dall’Ade, è una giovane donna sommersa dalla stanchezza, nascosta da una felpa informe, stordita da un acufene. Per uscirne sceglie di seguire le note di Orpheus Shivandrim, un fisico del suono, nel suo laboratorio di riarmonizzazione universale.
“Per me la scrittura nasce da una domanda: come stanno le persone oggi? Mi ha risposto un libro “La società della stanchezza”. Quest’ultima è la parola chiave della nostra epoca. Anche il più realizzato di noi dirà: va tutto bene, ma sono stanco. E lo siamo per iperproduttività, perché i nostri atti politici non trovano riscontro e perché siamo separati gli uni dagli altri”, racconta la regista Annalisa D’Amato in un’intervista. “Mi è venuta l’idea di un gruppo di scienziati che cercano di riarmonizzare le vibrazioni della terra e l’uomo”.
Euridice (Stefania Remino) diventa così simbolo di un disagio globale: un’umanità sfinita, dissonante, incapace di ascoltarsi e di connettersi con se stessa e con gli altri. Il tentativo di cura passa attraverso numerosi esperimenti sonori, da Bach alla lirica di Maria Callas, a un tentativo di orgasmo sui battiti scanditi da un metronomo. L’uso di registratori a nastro, sintetizzatori analogici, theremin, diapason e metronomi contribuisce a creare un’atmosfera ipnotica. Le parole risuonano in tre lingue, frammentate e ricomposte in un dialogo continuo tra scienza, poesia e spiritualità. Andrea De Goyzueta, Juliette Jouan, Savino Paparella e Antonin Stahly, bravissimi attori e musicisti, sono un’équipe di scienziati, personaggi enigmatici, sospesi tra il mondo accademico e il rito sciamanico. Tuttavia, nessuna delle loro terapie ha effetto su Euridice, perché tutte rimangono distanti dalla sua interiorità, non la “toccano”. Intuiamo che, forse, alienata nel lavoro solitario e nella vita frenetica, senta una grande mancanza ulteriore: il contatto umano, la relazione con l’altro.
“Orpheus Groove” è un esperimento teatrale audace e interessante, ma, sul finale, non del tutto riuscito nel raggiungere un apice emotivo. La narrazione procede in modo abbastanza lineare: dalla scelta di Euridice di farsi curare, ai tentativi scientifici di riarmonizzazione, fino alla sua rinascita. Vari passaggi, ma nessuna vera complicazione. Sebbene il tema della stanchezza e della dissonanza interiore sia ben delineato, la soluzione proposta appare più come una cura calata dall’alto che una vera evoluzione interiore. E con tanti ottimi musicisti ci si aspetterebbe un maggiore tripudio musicale, un battito più forte, un’esplosione sonora che restituisca pienamente il senso del ritorno alla vita. L’opera resta coinvolgente e necessaria, ma forse avrebbe potuto osare di più nell’intensità sonora e anche nel coinvolgimento emozionale.
Brigida Orria