“L’acqua alta e i denti del lupo. Josif Džugašvili a Venezia” di Emanuele Termini
Ci sono due modi di fare storia: la ricerca dei significati e la ricerca dei fatti. Il primo è tipico dei filosofi, e sicuramente il suo maestro insuperato è Hegel, che dà significato ai fatti storici immergendoli (o meglio sommergendoli) in una visione generale dell’uomo e del suo destino privilegiato. Il secondo modo di fare storia è quello di chi scambierebbe volentieri tutte le filosofie della storia partorite sino a oggi con l’indubitabile accertamento spazio-temporale di un solo evento. In questo modo agiscono i detective della storia, e il frutto delle loro ricerche si può paragonare alla trama di un romanzo poliziesco. E esattamente a un libro giallo somiglia “L’acqua alta e i denti del lupo. Josif Džugašvili a Venezia” (Exorma 2019, pp. 188, euro 15) l’ottimo lavoro di Emanuele Termini che, lette le prime pagine, ti trascina ineluttabilmente, come lo svolgersi di una gomena, verso la sua fine, mescolando al piacere della lettura, che non ti permette di staccare gli occhi dalla pagina, con l’ansia e la trepidazione di chi si aspetta di trovare a ogni capitolo indizi che lo avvicinino alla soluzione dell’enigma.
Turista attento e pensieroso sul destino di Venezia, tra la folla di visitatori che ogni giorno dell’anno si sparpagliano tra le calli, i monumenti, le chiese, le gondole e i vaporetti, i caffè e le librerie antiquarie, il protagonista (l’autore stesso che racconta in prima persona) si imbatte in una serie di indizi occultati fra due pagine del «Candido» di Guareschi (autore Gustavo Traglia, anno 1957), i Misteri della laguna di Alberto Toso Fei e quindici tavole della Casa dorata di Samarcanda di Hugo Pratt. Tutti e tre parlano, ma senza fornire riscontri, del passaggio e della sosta a Venezia, nel 1907, di un anarchico georgiano, il futuro Giuseppe Stalin, ospite del Monastero di San Lazzaro degli Armeni col probabile, o desiderato, ruolo di campanaro. Storico di professione, il protagonista è preso dal desiderio irresistibile di trovare ulteriori conferme della presenza di Stalin a Venezia ovunque sia possibile, e in particolare nella ricchissima biblioteca e negli archivi del Monastero. A questo punto la trama si divide in due storie parallele che si alternano nei capitoli del libro. La prima ricostruisce la biografia di Stalin e la sua attività politica fino al 1907, riccamente condita di bombe, assalti alle banche, contatti con Lenin esule in Finlandia e peregrinazioni in tutta Europa, per poi approdare ad Ancona sotto l’ala protettrice degli anarchici italiani che lo indirizzano dagli armeni del Monastero di San Lazzaro (non certo a caso, armeni e bolscevichi avevano un nemico comune, i turchi).
La seconda storia racconta la frenetica attività di ricerca del protagonista, ansioso di ridare vita agli istanti della presenza nella città dei Dogi dell’anarchico dai mille nomi e dai mille passaporti contraffatti. Seguiamo quindi il protagonista nelle sue continue peregrinazioni tra le biblioteche e le emeroteche di Venezia e il silenzio raccolto del Monastero degli Armeni nell’Isola di San Lazzaro. Il montaggio parallelo delle due storie è avvincente e il loro alternarsi tiene il lettore col fiato sospeso, nella crescente speranza del loro intreccio conclusivo. Come per ogni giallo che si rispetti, ho l’obbligo di non rivelare il finale. Preferisco chiudere citando un passo bello e ponderato del libro, che descrive la storia come l’arte di strappare le memorie all’inesorabile marcia del tempo, che le erode come l’acqua alta erode Venezia:
“La storia si può perdere, si può cancellare buttando nella spazzatura quello che sembra inutile. La storia è nelle mani di chi la vuole conservare, nelle mani di chi la ama e la cura; la storia è nella fatica di chi le dedica del tempo per metterla in ordine e custodirla, di chi la protegge dall’erosione del tempo, dall’acqua salmastra dell’incoscienza. La storia è nelle mani di chi le vuole bene!”.
Luciano Albanese