“Il tarlo”, l’ossessione che ci prosciuga

Il tarlo (La Nuova Frontiera, pp. 144, euro 16.50) è il primo romanzo di Layla Martinez, autrice e traduttrice madrilena.
“Quando ho varcato la soglia, la casa mi è saltata addosso. Succede sempre con questo cumulo di mattoni e sporcizia, piomba su chiunque attraversi la porta e gli strizza le budella fino a togliergli il fiato.”
Una casa dall’apparenza ordinaria, nella campagna spagnola, appena fuori città, è quella in cui fa rientro una giovane donna dopo essere stata trattenuta dalla polizia per un interrogatorio. Una casa condivisa con la nonna, da cui i vicini si tengono alla larga, ma di nascosto vi accorrono per chiedere aiuto. Una casa costruita dal bisnonno materno coi soldi derivati da violenza e sopraffazione, l’inizio di una catena impossibile da spezzare, come impossibili sono da mandare vie le ombre e gli spiriti che la infestano: dentro i muri, sotto i letti, dentro gli armadi e le pentole, ovunque. Santi e morti che parlano, che concedono di vedere il futuro, di fare ammenda ai torti subiti.
“In questa casa non si ereditano soldi o anelli d’oro o lenzuola ricamate con le iniziali, qui i morti ci lasciano solo i letti e il risentimento. Il cattivo sangue e un posto dove stenderti la notte, solo quello puoi ereditare in questa casa.”
La casa in cui ci porta la Martinez esiste davvero, l’autrice si è infatti ispirata a quella della nonna materna. Molto forte anche il richiamo alle tradizioni: la cultura delle apparizioni è ben radicata nelle zone della Spagna in cui si svolge il racconto, quelle de La Mancha e La Alcarria. I parenti morti che appaiono, il rapporto con la morte e le sue ombre. È qualcosa di reale. Lo sfondo storico è invece quello delle rappresaglie e delle repressioni esercitate durante la Guerra civile nel suo paese di origine, nella zona di Cuenca, una delle ultime a cadere nelle mani dei franchisti.
Il romanzo di esordio della Martinez è un horror a tutti gli effetti, solo che qui i meccanismi propri di questo genere diventano il pretesto per temi importanti, soprattutto legati alla violenza nei confronti del genere femminile, ma anche lotta di classe e patriarcato, e assenza di libertà: queste pagine sono piene di donne che se ne vanno da quella casa solo se arrestate o fatte sparire. Donne non libere che se la creano la libertà con i mezzi che hanno a disposizione, poco importa che siano fatture e immaginette di santi.
“A me non m’inganna (…) perché conosco il tarlo che ha dentro, quell’assillo che ha nel petto, come un cavallo sul punto di imbizzarrirsi che però non si decide, non si decide e alla fine rinuncia.”
La casa infestata come pretesto per raccontare soprusi e violenze subiti, quelli che non sempre possiamo vendicare e, in ogni caso, difficilmente scordare e allora scavano, scavano come un tarlo, creano buchi che diventano pozzi che diventano voragini.
Una casa in cui dispiacere e rancore sono la stessa cosa perché la roba che ci si porta dentro non si sradica tano facilmente.
“La famiglia è questo, un posto dove in cambio di un tetto e un piatto caldo resti intrappolata con un pugno di vivi e un altro di morti. Tutte le famiglie hanno i loro morti sotto il letto, solo che noi i nostri li vediamo, così diceva mia madre.”
La vera forza motrice del romanzo resta la vendetta, il desiderio di rimettere persone e cose al proprio posto. E la casa, fulcro del racconto, diventa il luogo che assorbe tutto, tutti i sentimenti, tutte le sensazioni, rifugio e carcere allo stesso tempo, da cui non si può uscire, nemmeno da morti. Metafora degli odi che ci incatenano.
Il mondo pare essere diviso in due: fuori dalla casa e dentro la casa, ma con il comune denominatore della violenza e del risentimento.
In questo racconto in cui la voce di nonna e nipote si alternano in prima persona, anche noi veniamo presi da un tarlo: quello di scoprire, di andare insieme a queste due voci a ritroso nel tempo per capire perché questa casa è una trappola, perché le nostre ossessioni sono una trappola.
Non c’è un ritorno alla normalità nemmeno alla fine del romanzo, quasi a voler indicare che troppo spesso l’orrido diventa la norma, è la norma.
Laura Franchi