“Quaderno dei fari” di Jazmina Barrera
“A qualcuno piace guardare dentro i pozzi. A me fa venire le vertigini. Ma con i fari smetto di pensare a me stessa. Mi allontano nello spazio e vado in luoghi remoti. Mi allontano anche nel tempo, verso un passato che so di idealizzare, in cui la solitudine era più semplice.”
“Nell’architettura ogni faro è unico, anche se in genere alcuni elementi si ripetono”. Una scala a chiocciola, una camera, una ringhiera, una torre di mattoni conica, ottagonale o cilindrica; bianca colorata o non pitturata, con incastonata una lampada, a illuminare il mare, “non si può pensare il faro senza il mare” . Lo troviamo in tante canzoni, il faro, o tra le pagine dei grandi della letteratura, da Omero a Edgar Allan Poe, Foster Wallace, Walt Whitman e Virginia Woolf. E ancora lo troviamo nei dipinti oppure nelle fotografie. E poi c’è lui, il guardiano che “come il pipistrello, doveva vedere al buio” e che, a parlarne, sembra quasi di discostarsi dal presente e dalla realtà. Anche le città, ognuna ha un proprio faro, come la torre Latinoamericana a Città del Messico o la Torre Eiffel a Parigi; o il faro rovesciato di New York, Central Park.
“Forse è vero che mi piacciono i fari perché sono disorientata. Mi sento sempre alla deriva…”
Ed è così che la giovane scrittrice messicana Jazmina Barrera, con il suo “Quaderno dei fari” (La Nuova Frontiera, pp. 124, euro 15, traduzione di Federica Niola), intraprende un viaggio tra isole, scogliere e Stati. Ma non solo, il viaggio continua tra le sue passioni e all’interno della letteratura, attraverso una scrittura leggera e soave che descrive, analizza e ricerca in continuazione attraverso quella lucina che illumina il mare, di notte, “con il compito di guidare, di aiutare, di salvare gli altri”.
Marianna Zito