“Sanguemisto”, quello dei generi e delle radici
“Sanguemisto” (La Nuova Frontiera, pp. 192, euro 17.90) è il recente lavoro di Gabriela Wiener, giornalista e scrittrice peruviana.
“Ciò che è più strano di trovarmi qui, a Parigi, da sola, nella sala di un museo etnografico, praticamente sotto la Torre Eiffel, è il pensiero che tutte quelle statuette che mi assomigliano siano state sottratte al patrimonio culturale del mio paese da un uomo di cui porto il cognome.”
Nel 1878, alla vigilia dell’Esposizione Universale di Parigi, la grande fiera che celebra il progresso tecnologico e che annovera tra le sue attrazioni principali uno zoo umano, l’esploratore austriaco Charles Wiener sta finalmente per ottenere l’agognato riconoscimento sociale. Wiener ha portato in Europa la bellezza di quattromila manufatti precolombiani e tra i suoi più grandi meriti c’è quello di non aver scoperto il Machu Pichu, ma di esserci solo andato molto vicino. Di aver mancato posti, scoprendone altri di interesse minore, di aver disegnato e letto mappe al contrario, confondendo nord e sud. Un discreto professore di tedesco che dalla mattina alla sera si è trasformato in Indiana Jones. Così la protagonista definisce il suo trisavolo, tra il critico e l’ironia pungente. Quasi a voler prendere le distanze da chi, però, in Europa portò anche un bambino, secondo l’usanza tipica dell’epoca di voler “addomesticare i selvaggi”. E una di quelle “selvagge” la mise incinta.
Gabriela Wiener prova a seguire le orme di Charles Wiener facendo affidamento sulle poche e incerte fonti scritte, e su un gruppo privato di Facebook in cui molti di quelli con cognome Wiener si sono radunati.
“Abbiamo tutti un padre bianco. Voglio dire, Dio è bianco. O almeno questo ci hanno fatto credere. Il colono è bianco. La storia bianca è maschile. Mia nonna, la madre di mia madre, chiamava mio padre, il marito di sua figlia, “don” perché lei non era bianca ma chola, un incrocio tra bianco e indio. Mi sembrava stranissimo sentire la mia nonnina che si rivolgeva a mio papà con quell’eccessivo e immeritato rispetto. Don Raul era mio padre.”
Il trisavolo è spunto e pretesto per questa narrazione che è a metà tra romanzo, autobiografia, saggio e saga familiare. Del resto, la stessa Wiener si definisce “una scrittrice di frammenti, che raccoglie pezzi e cuce scampoli scampoli di storie.” Sanguemisto ne è una buona dimostrazione.
C’è un concetto di razza/radici e antirazzismo che si mantiene costante in tutte le pagine. Quello che Gabriela auspica per sé, ma non solo, è una “decolonizzazione”, una liberazione dai preconcetti imposti dalla storia e che si sono trascinati nei secoli. Un antirazzismo che vuole essere storico, ma anche personale. Gabriela mette in discussione non solo le sue origini, ma anche la sua persona come individuo singolo e come individuo che si rapporta ai genitori, protagonisti di un triangolo amoroso che dura per tutta la loro vita matrimoniale. Al giovane bianco con cui ha una breve tresca mentre si trova in Perù per la morte del padre. Al marito peruviano come lei e alla moglie, spagnola bianca, Gabriela pratica infatti il poliamore. Alla colombiana con cui avvia una relazione in un miscuglio di femminismo, orgoglio delle proprie radici, sesso. Il rapporto bianco/nero è visto e raccontato come eterno binomio sottomissione/rivalsa sul colonizzatore. La storia ci insegna questo, a classificare in base al colore, e in base al colore ad assegnare un livello di “potenza”. E Gabriela ne è affascinata e sopraffatta allo stesso tempo.
“Difendo il nostro diritto di innamorarci, e il diritto di vivere con la persona che ci rende felici sessualmente e con cui possiamo ridere e piangere, con cui possiamo essere trasparenti e serene, senza dover dare spiegazioni.”
Senza doversi preoccupare della tonalità della propria pelle, di vedere il nostro volto riflesso in una statuetta precolombiana, senza essere scambiati per chi non siamo automaticamente perché la pelle dice che, storicamente, siamo inferiori.
Laura Franchi