Teatro e gabbie: perché “Vorrei una voce” di Tindaro Granata è uno spettacolo da non perdere

A volte esci dal teatro e hai la certezza di aver incontrato qualcuno. Non assistito a qualcosa, proprio incontrato. Persone vere, che respirano, con addosso tutto il peso delle insicurezze, le fortune capitate, gli errori, i cambiamenti. E quella sensazione vivida, calda, non se ne va nonostante il rumore e la frenesia del mondo intorno, resta con te e ti ricorda, piano, che nessuna storia si dissolve quando la voce che la porta è autentica.
Ma procediamo con ordine. Sabato 18 ottobre Vorrei una voce di e con Tindaro Granata, Premio Hystrio Twister 2025, ha inaugurato la nuova Stagione del Teatro di Meano (TN). La serata si è aperta nel foyer con Parole Parole: Omaggio a Mina, in cui una splendida collezione di vinili originali ha fatto da cornice a un dialogo aperto tra Davide Sorzato e il pubblico attraverso la carriera dell’artista, le sue svolte e l’impatto sul costume italiano. In mezzo a tutto questo, Tindaro Granata già in abito di scena, trucco e tacchi alti, ad ascoltare insieme a noi. L’ingresso in sala è arrivato carico di quell’atmosfera, tenera ma necessaria, come quando ci si prende un momento per abituarsi alla temperatura dell’acqua prima di immergersi davvero.
Al centro del palcoscenico uno sgabello, attorniato da abiti scintillanti e da una schiera di faretti, cui si aggiunge, sul lato, un’asta microfonica. Il disegno luci (Luigi Biondi) fa il resto trasformando lo spazio in una foresta galleggiante, sospesa: al mutare dell’intensità e del colore, i riflessi danzano sul tessuto dei costumi (Aurora Damanti). Granata entra nella narrazione partendo da sé, da chi era e da che cosa cercava riparo quando ha ricevuto la proposta di tenere un laboratorio teatrale nella sezione femminile della Casa Circondariale di Messina. Il progetto, parte de Il Teatro per Sognare diretto da Daniela Ursino per D’aRteventi, prevedeva la ricostruzione in playback dell’ultimo grande concerto di Mina. A distanza di alcuni anni ne è nata una drammaturgia che alterna con abile respiro la dimensione autobiografica dell’attore a quella delle donne incontrate in carcere, con le canzoni di Mina a colmare le vulnerabilità senza nasconderle.
Cinque ritratti femminili, cinque storie segnate dal tempo, a volte dal caso, spesso dalla disparità. Dati Istat alla mano, la percentuale di donne detenute con legami familiari o relazionali con contesti criminali o mafiosi è notevolmente superiore rispetto alla controparte maschile – in altre parole la maggior parte delle donne incarcerate sono figlie, sorelle, compagne, mogli o madri di criminali, spesso coinvolte non per scelta diretta ma per prossimità, marchiate a vita dallo stigma sociale. Granata si muove con padronanza in questo intreccio di voci e di pensieri, cambiandosi d’abito a vista, costruendo gradualmente la riconoscibilità di Assunta, Jessica, Sonia, Vanessa e Rita attraverso registri linguistici distinti, tic verbali, posture espressive, desideri e inciampi. Tra tutte, emerge con particolare forza la prima con cui l’attore ha stabilito un legame durante il laboratorio, rapporto che si è mantenuto ben oltre la conclusione del progetto. Madre profondamente ferita, convinta di non avere più sogni propri se non quelli in cui suo figlio le viene a parlare, Assunta si rivela invece portatrice di una umanità tenace e vitale.
Lo spettacolo lascia stupiti e commossi fino all’ultimo, ed è anche una riflessione sulla dignità e sul diritto al riscatto, un ponte tra qualsiasi “dentro” e “fuori”. Quel che resta, al termine, non è solo l’intensità ma la sensazione che quelle voci, amplificate dalla musica di Mina, abbiano trovato finalmente uno spazio di libertà. Come quando le onde ti tengono a galla e tu puoi finalmente abbracciare il sole con tutto te stesso.
Pier Paolo Chini
Fotografia di Masiar Pasquali








