TABELLINE DELLA METAFORA, 7-14-21-28 DI REZZAMASTRELLA AL TEATRO DELLA CONCORDIA
Si gioca alla vita in un ideogramma.
Un ideogramma che racchiude, nella sua essenzialità, il concetto di una esistenza instabile e frenetica. Che restituisce, stilizzato, il frastuono di un mondo perennemente sul punto di rovesciarsi: ci si aggrappa alle corde diventando involontarie marionette. Vive in questo spazio “7-14-21-28” del duo RezzaMastrella, atterrato sabato 19 gennaio 2019 al Teatro della Concordia di Venaria. Geometria di linee e angoli, policromia di bianco, nero e rosso, l’habitat di Flavia Mastrella stringe e costringe i personaggi della danza macabra messa in scena da Antonio Rezza insieme all’indistruttibile Ivan Bellavista.
Un padre spinge, pericolosa-mente, il figlioletto sulle giostre; una caposala abbaia alla salute di un paziente vittima di violenza; a tutti viene instillato il dubbio sulla bontà dell’acqua; improbabili candidati giocano a nascondino in quella che Gadda chiamava la “cisterna vuota dell’insensatezza”; un operaio precario torna sfinito dalla fabbrica e trova il bambino a reclamare la macchinetta e la cioccolata, mentre ad accogliere Otello di ritorno dalla crociata c’è una Desdemona dalla sincerità burattina.
Nulla rimane in quiete, nulla lascia indenni: le parole stesse cadono nella trappola di un senso che non è mai univoco: Attento, a papà! diventa di colpo Stai attento a papà!. Quando i nodi vengono al pettine, sono i denti del pettine a spezzarsi, prova ne è il confronto tra la Pietà di un Mantegna autentico e uno falso.
Contro la facile lettura “è soltanto nonsense, chiunque ci legge quello che gli pare” scocca il grugnito di Maurizio, sottoministro alla Ricerca: Non riusciamo a trovare uno straccetto in una stanza, e vogliamo cercare Dio nell’universo?. Il senso c’è eccome, ma nel flusso arterioso e venoso allo spettatore non è dato compiacersi perché al contrario è il senso ad afferrare il pubblico, con ferocia brillante e cupa, a coglierlo di sorpresa, a far scappare risate dal panico e panico dalle risate. Si procede inevitabilmente per gradi, dalla legittima difesa (il riso, appunto) alla rabbia, poi ci si guarda dentro con occhio spento e – zac! – la metafora è nel segno, colpito e affondato.
Infanzia, famiglia, religione, Stato: nulla ha scampo, c’è una crepa in ogni cosa ma è da lì che originano le trombosi. La bestemmia dell’operaio diventa coagulo e macigno, tanto quanto la voce registrata del brigadiere, colpevole per forza maggiore di non aver fatto abbastanza per scongiurare la fine propria e del suo maresciallo.
Un filo del discorso ritorto al punto da non spezzarsi mai nonostante la lacerante angoscia. Per descrivere Antonio Rezza andrebbe coniato – e subito dissolto, perché lui rimane indescrivibile – il termine di “metafora-foro”, colui che è portatore di metafore. Portatore sano, per quanto la salute non sia che un’altalena di premesse e di promesse, sospesa sopra il baratro delle conseguenze (cioè noi, il pubblico). Nella compulsiva ricerca di ciò che viene ogni volta perso o dimenticato, ormai – come avrebbe potuto dire un qualunque Heidegger, rifugiatosi nel nero della foresta più nera per sfuggire al dilagante vocione del mondo – solo uno straccetto ci può salvare.
Pier Paolo Chini