Astolfi e Morau per Spellbound25 al Teatro Astra di Torino
Torino, Teatro Astra, martedì 20 luglio: è quasi il crepuscolo in via Rosolino Pilo, dove si è coagulato un nugolo omogeneo di spettatori. I ballerini in borghese, le signore con le mèches lime, i coreografi, gli addetti ai lavori, un professore di greco e latino, colleghi, amici. Tutti parlano con tutti. S’inizia addirittura con un filo di ritardo perché evidentemente c’è molto di cui chiacchierare. Data unica, nessuna replica: è il compleanno di Spellbound Contemporary Ballet. La serata, con poca fantasia, è stata intitolata Spellbound25. Come per altre occasioni analoghe, l’Astra ha presentato più coreografie insieme: Unknown Woman e Wonder Bazaar di Mauro Astolfi, Äffi di Marco Goecke, Marte di Marcos Morau. Tuttavia, Mario La Terza, che avrebbe dovuto interpretare la coreografia di Goecke, si è infortunato e quindi non ha potuto esibirsi.
Si parte con un’introduzione sommessa, a tratti vacua, statica, dove le pose sono più importanti dei movimenti. Unknow Woman è un breve soliloquio dalla trama impenetrabile, un gioco serioso di ostentazioni corporee, muscolari, come un tableau vivant di Malevič. Maria Cossu risolve egregiamente la situazione che le viene chiesto di affrontare, ma chiaramente non può estrapolare nulla di palpabile da un brano di moto minimo, astratto, indeterminato. Più complessa Wonder Bazaar, sempre di Astolfi. Si legge nel comunicato stampa che trattasi di un mondo distopico in cui i rapporti umani ormai ridotti al minimo lasciano spazio a una fiducia cieca e priva di senso nei confronti di una macchina che, anche se spenta e non funzionante, dà sicurezza. Siamo in un ambiente piuttosto inquietante: può essere uno studio televisivo di Enzo Biagi (tipo Filmstory), o l’Area 51, o la plancia dell’Enterprise in Star Trek, ma anche il laboratorio del professor Farnsworth. All’inizio non c’è musica, ma suoni: pioggia, squilli di videogiochi, fonemi cibernetici. Akira Rabelais. Una viola? Un cembalo? Poi irrompe la techno, però gotica. Poi ancora la poesia giapponese di Misumi Mizuki, minimalista e antimelodica. Sembra una performance di Vanessa Beecroft, ma senza l’autorevolezza né la potenza di quelle azioni: i ballerini sono umanoidi che interagiscono con questo automa a metà fra un frigorifero e R2-D2, danzano coi mobili, con le sedie, poi da seduti, poi sdraiati. La metafora è al contempo chiara e annacquata: si vuol narrare l’alienazione della realtà contemporanea, che invade come una nebbia tossica le case e le menti delle persone.
Infine, Marte di Morau: coreografia densa, ponderata ma impetuosa. Come il moto delle onde: pervicace, instancabile, eppure di lieve entità quando si arriva alla battigia. Nove figure colmano il palco imbracciando dei lunghi tubi di neon bianchi, rossi, blu e poi daccapo, che inizialmente sono l’unica fonte di luce in tutto il teatro. In testa hanno quelle calze che appiattiscono i connotati (tipo collant per rapinatori), e sono vestiti come i tuareg. È una costellazione di corpi blu che riproducono le attività celesti da una prospettiva spaziale, ipersferica. A livello estetico e motorio, ritorna Vanessa Beecroft, ma non solo: vengono riprodotte delle complesse evoluzioni cinestetiche, come in uno zootropio, come nelle foto di Eadweard Muybridge o come in certi dipinti futuristi (ad esempio, non so, la Bambina che corre sul balcone di Severini). Sembra un paesaggio di eliche, o di vertebre in successione, o l’immagine ingrandita di un altro processo evolutivo: serpenti di braccia e di gambe intrecciate, bruchi, catene, chiocciole, sezioni auree, strutture elicoidali. Anche qui, alcuni intervalli reiterati, molte diluizioni. Tolgono le maschere, poi le rimettono. Le musiche sono elfiche, tribali, boschive e astrali: siamo a Gran Burrone, ma ecco che parte una versione per pianoforte di Life on Mars, e le meditazioni sintetiche di Caterina Barbieri e affini. Nel blu, un’unica nota di rosso: una marziana rispondente allo stereotipo, rinchiusa in un cilindro di luce scarlatta. Un accenno di qualcosa che però non viene del tutto sviluppato. Marte, qui, è un pianeta da colonizzare: la Terra ormai è stata annientata, demolita, rovinata, inquinata; i giovani partono per una terra promessa, protetti da un Ares che va inteso come dio della pertinacia, della risolutezza, dell’ambizione. La coreografia è suggestiva, coinvolgente, armonica; la trama è avvincente.
Davide Maria Azzarello