Roy Lichtenstein al Mudec di Milano: cento opere pop oltre il cliché del fumetto

I love liberty è una serigrafia a colori su carta Arches 88 del 1982. Tutti l’abbiamo vista almeno una volta: il profilo giallo della statua che accoglie chi arriva dalle rotte dell’Atlantico, due linee di braccio che conducono ad uno scorcio di fiaccola senza fiamma, le diagonali cianotiche sullo sfondo, la bidimensionalità asettica e anonima che riduce il mito a una cartolina di design; tutte coordinate di un’immagine pop che rimane necessariamente impressa. Forse si tratta di una figura meno nota rispetto alle varie Marilyn, ma la potenza d’opinione di I love liberty, con il paradosso già tutto incastonato tra il titolo e la sua estetica, è decisamente innegabile. Questo dettaglio ingrandito della signora di Liberty Island accoglie i visitatori che fino all’8 settembre arriveranno all’ex-acciaieria Ansaldo di via Tortona 56, dove è stata allestita una grande mostra temporanea dedicata a Roy Lichtenstein, negli ordinati ambienti neorazionalisti recentemente ideati dall’architetto londinese David Chippirfield.
Con quest’esibizione il Museo delle Culture, contratto in un Mudec di cui ancora non si è intuito il plusvalore lessicale, si riconferma al centro della scena culturale milanese ed europea. Il merito più grande di questa mostra è l’audacia con la quale sospinge Lichtenstein al di là della gabbia dorata che lo vede intrappolato nei fumetti: spesso, infatti, pensiamo che la sua ricerca sia ruotata tutta attorno a quel tipo di figurazione, o quantomeno che quell’estetica bucherellata sia un apice prospettico dal quale affrontare la sua produzione. C’è da dire che i manuali di storia dell’arte non aiutano: per ragioni piuttosto astruse, di solito i capitoli dedicati alla Pop Art angloamericana partono dalle camere di Hamilton, indugiano lungamente sulle mille serigrafie di Warhol, inseriscono un paio delle donnine piangenti ultra-ingrandite di Lichtenstein e poi citano in maniera più o meno disordinata Rauschenberg, Rosenquist, Wesselman e Oldenburg. In tutto ciò, Lichtenstein viene affrontato brevissimamente solo dal punto di vista di un paio d’opere, quasi sempre il pugno (pow!) con la nuvola che dice Sweet dreams, baby! e la fanciulla che annega dicendo I don’t care! I’d rather sink than call Brad for help!; che di sicuro sono evocative del suo stile, ma che altrettanto certamente non possono sostituirsi a tutto il resto. Ecco, al Mudec si ha l’opportunità di scoprire quel Lichtenstein che spesso non s’incontra, quello che rimane al di fuori dei libri di storia dell’arte, quello che ha riflettuto su molteplici aspetti della società del dopoguerra. E quindi un grande plauso va a Gianni Mercurio, il curatore, che per il Mudec si è occupato anche della discussa e discutibile esposizione della scorsa stagione, quella non autorizzata su Banksy.
Sono più di cento le opere e arrivano soprattutto dagli Stati Uniti, più dalle collezioni private che non dai musei. Il percorso è molto ordinato: non si procede per cronologia, ma per temi. Si parte dalla sezione delle immagini epiche – ovvero le traslazioni pop dell’iconografia dei nativi d’America – e si continua con gli oggetti, nature morte pazzesche; impressionante la serie degli specchi, gli interiors, dalle case più anonime allo studio ovale; gli action comics tanto noti; la figura femminile – bellissimo il profilo bronzeo della donna bionda -; le astrazioni, cioè tutte le finte pennellate, ma non solo; e le reinterpretazioni degli stili dei grandi maestri del Novecento. Chiude la mostra una sezione assolutamente sorprendente, quella sui paesaggi: sorprendente, più che altro, per la qualità materica attraverso la quale Lichtenstein decise di riconsiderare il concetto stesso di paesaggio, appiattito qui in bidimensionali frange cangianti di materiali più o meno identificabili, ma sicuramente divertenti (fra tutti, la plastica lenticolare rowlux). E forse è proprio per questo che la mostra è stata sottotitolata Multiple Visions, perché offre uno sguardo panoramico sulla vasta permeabilità della ricerca di Lichtenstein, che riusciva a inabissarsi tra le tematiche più disparate. Altro che Lichtenstein? Quello dei fumetti. Certo, va detto poi che, come ogni grande mostra di un grande museo pubblico che si rispetti, anche qui tutto è stato orchestrato con un certo grado di volontà didascalica. Ma così dev’essere, se vogliamo che sempre più persone si avvicinino alla cultura. E questo dev’essere stato un punto molto chiaro anche nella mente di chi ha promosso la mostra, ovvero la sezione Cultura del Sole 24 Ore; ma anche per chi l’ha prodotta, cioè l’azienda MADEINART (la stessa che ha finanziato quella su Banksy).
Per visitare la mostra avete tempo fino all’8 settembre. Fatevi un regalo e andate a vederla.
Davide Maria Azzarello
Foto di copertina: Roy Lichtenstein, Brushstroke,1965. Litografia su carta bianca, spessa, liscia 23 x 29 in. (58.4 x 73.6 cm). Collezione privata, Courtesy Sonnabend Gallery, New York ©Estate of Roy Lichtenstein