Rossini a Venezia: la ran la lera e tutto il resto
Da sabato 24 agosto a mercoledì 9 ottobre, per un totale di ben tredici repliche, la Serenissima propone Il barbiere di Siviglia. Una versione oggettivamente tranquillizzante e non molto innovativa, una produzione tutto sommato giovane che palpita però di quel divertissement ottocentesco un po’ fine a se stesso. Siamo, ovviamente, al Teatro La Fenice, che peraltro in questo periodo sta proponendo anche Tosca e una splendida Madama Butterfly.
Almaviva, o sia L’inutile precauzione era il titolo originale di quest’opera buffa in due atti che un giovane Gioachino Rossini compose come al solito in fretta e furia; pare gli siano bastati appena venti giorni. La prima avvenne al Teatro Argentina di Roma, nel 1816, e cioè tre anni dopo il debutto di un’altra sua opera, L’italiana in Algeri. L’operazione di Rossini, comunque, non è stata molto originale: esisteva già un Barbiere di Siviglia operistico; lo aveva musicato Giovanni Paisiello traendo la trama dalla commedia omonima di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, ridotta a libretto da Giuseppe Petrosellini. Con Rossini lavorò invece Cesare Sterbini, che scrisse il libretto sempre sulla base di Beaumarchais. Col tempo, comunque, la versione di Paisiello è stata surclassata da quella di Rossini, che secondo molti è l’opera più riprodotta in tutto il mondo. Eppure, la prima a Roma non andò molto bene: solo col passare degli anni Il barbiere n°2 venne accettato e acclamato. La trama si sviluppa, prevedibilmente, attorno ad una scherzosa compagine di personaggi le cui vicende mirano essenzialmente alle risate del pubblico: siamo a Siviglia, il Conte d’Almaviva canta una serenata sotto la finestra della casa di una giovane conosciuta a Madrid, della quale si è innamorato qualche tempo prima. Il Conte però è un po’ imbranato, e quindi si fa aiutare dal barbiere della città, che peraltro frequenta assiduamente la casa di Rosina, ovvero la fanciulla di cui il conte è invaghito. Il problema è che anche Don Bartolo, il tutore di Rosina, è interessato alla ragazza. Allora Figaro, il barbiere, s’ingegna (dietro lauti compensi del conte) e mette al corrente lei dell’amore di lui, presentandolo come suo cugino Lindoro. Stratagemma dopo stratagemma, i due riescono a chiacchierare e, in breve, s’innamorano. Travestimenti, peripezie, equivoci in quantità: la trama si complica, ma il finale è chiaramente positivo. Una storia non certo banale, quindi, ma sicuramente neanche sconvolgente: non c’è neanche un vero antagonista, se ci pensiamo, poiché Bartolo alla fin fine non fa paura a nessuno.
La regia, per questo allestimento, è di Bepi Morassi; le scene e i costumi di Lauro Crisman. I due hanno proposto un Barbiere divertente, spiritoso e allegro. Ed effettivamente, in questo senso, hanno scelto di aderire alla configurazione originale dell’opera buffa, che – almeno quando si tratta di una certa parte della produzione rossiniana – mira più ad un dilettevole trascinamento che non ad un coinvolgimento intellettuale. Vale più la risata, insomma, del ragionamento. E in questi termini l’operazione di Morassi e Crisman merita sicuramente di essere applaudita, perché offre allo spettatore una visione dei contenuti buffi dalla prospettiva originaria, cioè quella che tentava di raccontare alla giovane classe borghese delle peripezie meno liriche di quelle che si ritrovavano nell’opera seria. Morassi e Crisman scelgono la via della rievocazione storica, rifiutano l’attualizzazione dei testi e imboccano dunque la via del pragmatismo rossiniano: il pubblico ride quando Figaro intrattiene Don Bartolo rasandolo, sghignazza dell’elegante ingenuità del Conte, canticchia l’arcinota cavatina iniziale e dunque ah che bel vivere che bel piacere per uno spettatore di presunta qualità. In tutto ciò, però, si distingue per bravura Francesco Ivan Ciampa, che dirige un’orchestra capace di accordarsi alle qualità canore di quasi tutti gli interpreti: encomiabilissimi Laura Polverelli (Rosina), Maxim Mironov (il Conte) e Giovanna Donadini (Berta).
Davide Maria Azzarello