“L’informale” al castello di Miradolo: un’occasione splendida
A tre chilometri da Pinerolo c’è un grazioso castello immerso nei boschi che si sviluppano sotto il torrente Chisone. Siamo a Miradolo, frazione di San Secondo che conta appena seicento abitanti. Costruito forse nel XVII° secolo, il castello annovera tra i suoi possessori nientemeno che Emanuele Cacherano di Bricherasio – cofondatore, nel 1899, della FIAT – e la sorella Sofia, mecenate e allieva del paesaggista biellese Lorenzo Delleani. Alla morte di Sofia, il podere passa a una congregazione religiosa che però non ne ha molta cura. Negli anni novanta, il sito viene abbandonato. Nel 2007, però, la Fondazione Cosso lo acquista e dà il via ad un’azione di restauro atta a restituire alla comunità un patrimonio culturale e naturale molto prezioso. Un progetto particolarmente encomiabile, se si considera che viene portato avanti con la sola forza delle risorse private della presidente Maria Luisa Cosso, figlia di Ludovico, che negli anni ’20 istituì assieme a Francesco Corte la Corte&Cosso (oggi Corcos, parte del gruppo tedesco Freudenberg Sealing Technologies), azienda leader per la fabbricazione di componenti per le automobili. Alla morte di Ludovico, nel 1960, è Maria Luisa a prendere le redini dell’azienda: ha solo 21 anni ma si difende bene, tanto che nel ’98 viene nominata cavaliere del lavoro.
Dal 2008, al castello di Miradolo si susseguono occasioni artistiche a ritmo serrato, almeno un paio di mostre all’anno, e sempre molto interessanti: Delleani, Vittorio Avondo, i caravaggeschi, Orsola Maddalena Caccia, Luigi Spazzapan, Tiziano, Lorenzo Lotto, Tiepolo, Melotti, Cantamessa. A livello curatoriale, il castello si è avvalso per esempio della consulenza di Giuseppe Luigi Marini, Daniela Magnetti, Vittorio Sgarbi, Giovanni Carlo Federico Villa. Ieri, domenica 14 luglio, si è conclusa invece l’esposizione Informale. Da Burri a Dubuffet, da Jorn a Fontana, curata da Francesco Poli, docente a Brera, Torino e Parigi. Nelle stanze del piano nobile del castello di Miradolo, tra le volumetrie restaurate e gli affreschi originali, è stata allestita una successione non cronologica di opere d’arte informale, definizione coniata nel 1951 dal critico francese Michel Tapié per indicare tutte quelle esperienze e ricerche artistiche figlie della violenza militare, dell’esistenzialismo, dell’inquietante contingenza del dopoguerra. Quando ci si accosta al concetto di informale, è bene sapere che si tratta di una etichetta generica che nella sua essenza più profonda riguarda l’indifferenza dell’artista dinnanzi alla netta opposizione fra astratto e figurativo che imperava negli anni Cinquanta, anche se forse la discussione era iniziata ben prima e si è conclusa molto più tardi. L’informale non è informe, è semplicemente contrario ai modelli stilistici preesistenti, sconvolge il dibattito ed enfatizza il ruolo dell’artista come individuo libero che filtra il mondo attraverso la lente della soggettività. “In generale si può parlare di un diffuso atteggiamento di anarchica tensione creativa“, scrive Poli nel saggio introduttivo inserito nel catalogo (ed. Gli Ori, Pistoia). E quindi a Miradolo sono arrivati in tanti: l’espressionismo astratto americano con Mark Tobey, Norman Bluhm e Hans Hoffmann; il gruppo Co.Br.A. con Pierre Alechinsky, Karel Appel e Asger Jorn; tanti francesi, da Jean Dubuffet a George Mathieu; e altrettanti italiani, Lucio Fontana, Alberto Burri, Mattia Moreni, Luigi Spazzapan, Ezio Gribaudo, Pinot Gallizio, Mario Merz, Carol Rama, e così via ; fino ai giapponesi del gruppo Gutai (traducibile come concreto). Un’esposizione estremamente gradevole, molto evocativa, che punta alla riscoperta ragionata di un’estetica che dobbiamo assolutamente conoscere per capire le ricerche più recenti. Una panoramica che ha saputo essere al contempo didascalica per gli outsiders e affascinante per gli insiders. Un’occasione splendida, quindi.
La settimana scorsa, poco prima che si concludesse la mostra, ho intervistato il professor Poli.
D.M.A. – Le opere esposte appartengono quasi tutte al filone che spesso il grande pubblico classifica come lo potevo fare anch’io. Lei cosa si sente di dire in proposito?
F.P. – Prima di tutto, non è affatto vero che queste opere potrebbe farle chiunque: chi pensa di poter produrre qualcosa di simile non sa percepire la qualità di controllo e di elaborazione dei materiali che caratterizzano questi artisti. Per il resto, l’idea del lo potevo fare anch’io è facile da confutare: anche io so fare il teorema di Pitagora, per esempio, ma questo non significa che io sia Pitagora né che mi possa avvicinare alla sua grandezza come matematico.
D.M.A. – Ho notato che tutte le opere provengono da collezioni private, e quindi le chiedo: lei non pensa che ci possa essere una qualche liaison tra l’incapacità della gente di interagire con questo tipo di arte e il fatto che ancora molto non viene esposto nei grandi musei pubblici, che sia per scelta dei musei stessi o perché le opere rimangono custodite negli appartamenti di chi può permettersi di acquistare alle aste?
F.P. – Io non sono d’accordo. Gli italiani in mostra sono esposti in tutti i musei del mondo, e lo stesso vale per quelli del gruppo Co.Br.A. e per i giapponesi del gruppo Gutai. Tante di queste ricerche sono partite negli anni Quaranta e Cinquanta, e se consideriamo quanto tempo è passato iniziamo a renderci conto che si tratta di un’espressione sperimentale ma comunque anche classica, ormai. Forse il problema è un altro, e riguarda nello specifico l’informale: per via delle oscillazioni del gusto quest’arte (molto alla moda fino agli anni sessanta) è stata messa a margine con il boom della pop art, del postmoderno e dell’arte povera. Oggi l’arte informale è ancora un po’ lontana dall’interesse di un certo tipo di collezionismo, ma sta tornando a essere rilevante a livello espositivo.
D.M.A. – Però dei legami tra l’informale e l’arte degli ultimi anni ci sono, vero?
F.P. – Ecco, questa è una questione molto importante. Il carattere di fondo dell’informale – a livello di segno, di forme e di colore – consta di una forte identità di tipo soggettivo, emozionale, individuale. E la libertà, soprattutto quella segnica, è un carattere che ha continuato ad esistere nell’ambito pittorico e anche in quello scultoreo. Non si è parlato più di informale, abbiamo coniato altre etichette. Però uno come Basquiat, per esempio, è espressionista esattamente come Dubuffet o come Appel, che abbiamo scelto per il manifesto della mostra e che dimostra che l’informale va oltre la diatriba tra astratto e figurativo. Certo, poi Basquiat ha articolato il tutto in un contesto socioculturale diverso, ma quella libertà è sopravvissuta attraverso la sua generazione e continua a esistere grazie a tanti artisti giovani di oggi. Forse le motivazioni di fondo dell’informale e dell’arte contemporanea più recente sono diverse, ma quello spirito là è ancora importante, ed ecco perché vale la pena di conoscere e frequentare la prima arte informale.
Davide Maria Azzarello
Nella foto: Georges Mathieu, Senza titolo,1961, collezione privata