La coscienza Grande Inquisitrice: il cuore celato di Ivàn Karamazov al Teatro Elfo Puccini di Milano
La vera vita dell’uomo inizia dopo la sua fine.
Lasciare le spoglie mortali, libera e svela. Ma cosa esattamente?
Ad esporci questo assioma Ivàn Fëdorovič Karamazov, la cui esistenza è trascorsa dietro la trincea difensiva del raziocinio, dove è plausibile solo ciò che è tangibile, spiegabile e logico – e per questo fonte di sicurezza -, combattendo l’idea di un’entità superiore, fuori e dentro di sé, e ancor più un credo dogmatico che la coltivi. Ivàn non può concepire la coesistenza delle nefandezze commesse dei suoi simili e di un Divino descritto come Puro Amore e Benevolenza, che nella libertà concessa alle sue creature consente loro di agire il Male più efferato. Un paradosso che genera totale disorientamento e che un intelletto preponderante tramuta in scetticismo e negazione, sfociando in quella che si può definire una morale immorale. Ma tutto questo altro non è che il dibattimento di un uomo incapace di gestire le proprie acque interiori, potenti e profonde, e si aggrappa a una terra dura, contribuendo a inaridirla ulteriormente. E da ateo professo, certamente non contempla possibilità alcuna oltre la morte fisica.
Quale il senso quindi della considerazione espressa, che sembra aprire una visione antitetica a quella dell’intellettuale intransigente, che gli anni, molti ormai quelli vissuti, hanno crescentemente impietrito, ne hanno inasprito la diatriba spirituale, e apparentemente spento il nucleo sensibile? Si tratta della verità che riguarda tutti: l’autenticità dell’essere non può essere estirpata e torna inesorabile e a reclamare ciò che le spetta. La forzata compressione esercitata sull’intera esistenza, al ritirarsi della carne e all’infragilirsi delle ossa mostra gli inevitabili cedimenti. Così riemerge innanzitutto la coscienza etica, fortemente sospinta dai sensi di colpa, da peccati anche non direttamente agiti ma comunque compiuti. Affamata di castighi per quei delitti che si imputa da tempo: la morte oscura di un padre odiato, il suicidio di un colpevole sì, ma indotto al reato, e la sentenza subita da un fratello innocente.
“Io sono un uomo cattivo”. La condanna del tribunale personale a sostituzione di quello pubblico. Ma quale è quindi questa vera vita dopo la morte? La memoria che rimane, il cadere delle maschere, la liberazione dai tormenti terrigeni? Forse ognuna di esse; ma non sembrano concetti sufficienti o completi per un’intelligenza filosofica fine che riflette su una diversa fase esistenziale. Assurgersi a giudice di sé stessi pare più un modo di sostituirsi al ripudiato Giudizio Divino, che ora invece l’inconscio percepisce incombente, giocando in anticipo su di esso per rifuggerlo senza comprenderlo. Ripercorrere le proprie memorie, o i propri demoni, è l’estremo tentativo di mantenere lontana l’innata spiritualità cui l’uomo tende. Ciò che possiamo definire come Coscienza Superiore, Sé di junghiana concezione, Anima, si fa breccia fra la struttura del Super Io, sbeffeggiandolo sulla linea del traguardo e mettendo al bando ogni replica del pensiero. Un richiamo inesorabile si collega all’Intimo Superno negato e respinto. E spaventa, smarrisce. Sgretola le certezze così minuziosamente assemblate. Ma del resto, anche il Grande Inquisitore, l’alter ego letterario che Ivàn si crea di suo pugno, cede di fronte al Cristo, lasciandolo infine libero. Così l’uomo svincola suo malgrado, al riassorbirsi del proprio tempo circoscritto, il Christos interiore, arrivando al compimento che determina il nuovo ciclo.
Rimasta incompiuta, l’ultima opera di Fëdor M. Dostoevskij “I fratelli Karamazov”, trova una parziale conclusione in questo consistente monologo, andato in scena dal 14 al 19 maggio al Teatro Elfo Puccini di Milano, che descrive l’ultimo tratto della parabola ivàniana.
Prezioso punto di forza dello spettacolo, ritrovare nei panni del secondo genito di casa Karamazov il suo interprete italiano principe, Umberto Orsini, in veste anche di produttore con la propria Compagnia, in un intreccio straordinario fra vita e teatro.
Quasi letteralmente un viaggio nel tempo, attraverso la performance intensa e fusionale di un grandissimo del palcoscenico, la cui energia vitale arriva forte e piena, al pari del talento, di sapienza e padronanza attoriali; e dell’amore per un ruolo che ha scandito una carriera come poche.
“Le memorie di Ivàn Karamazov” sviluppa e srotola le pieghe di un personaggio complesso, forse in parte sacrificato nel romanzo originale, nel quale rimane sospeso; attraverso la travagliata confessione, scioglie a sé stesso e al pubblico, e forse a Dio, le briglie così a lungo trattenute. Diventando specchio potenziale dell’interiorità di ognuno.
L’impianto scenotecnico di Giacomo Andrico è perfettamente austero e decadente, imperioso e rigido, ma che nei dettagli, nelle piccole cose, fa emergere i sintomi di verità nascoste e significati soppressi. Dai quali Ivàn ancora cerca di difendersi, avvolgendosi nel logoro pastrano militare e nascondendo a tratti la vista con la falda di un alto cilindro, metafora di una mente somma ma fissamente dottrinaria (costumi di Daniele Gelsi). Tutto è misuratamente illuminato da Carlo Pediani, esaltando e circoscrivendo le parole e i gesti salienti del protagonista, sinergicamente scanditi dai suoni curati da Alessandro Saviozzi.
La sintonia fra la regia di Luca Micheletti (assistente Francesco Martucci) e interprete è palpabile, e consegna un risultato artistico superbo, nel quale è un privilegio essere assorbiti.
Chiara Vecchio
Fotografia di Fabrizio Sansoni