In piedi sulle macerie. È ancora pensabile una Rivoluzione? Ottantanove di Frosini/Timpano

“Noi a cavallo tra due epoche, prima e dopo l’89. Noi qui insieme adesso. Ma siamo insieme adesso? Piccoli primati interdetti, mummificati guardiamo lo spettacolo della democrazia mummificata pure lei. Stiamo in piedi su macerie come su piedistalli”.
Esiste e resiste ancora un teatro con le caratteristiche dell’urgenza, che inchioda il pubblico alle poltrone in sala costringendo ogni singolo spettatore a mettersi in discussione, a riconoscere la responsabilità delle proprie azioni (o inazioni) quotidiane in un periodo storico incredibilmente complicato. È una considerazione immediata, perché ci si sente così, messi a nudo, stretti in un angolo e disarmati, dopo la visione di Ottantanove della Compagnia Frosini/Timpano (nel nostro caso, al Teatro Fontana di Milano dal 9 all’11 maggio 2025). Palcoscenico spoglio, niente quinte nè sipario, luce in sala. Tre grandi bandiere impigliate al soffitto, macchie di colore – blu, bianchi, rossi sporchi e sbiaditi – ricordano i residui di una battaglia, un luogo in disallestimento, la malinconia alla fine di una festa. Un lungo silenzio che si fa provocazione, poi lo scatenarsi della parola, senza freni, senza sconti. Elvira Frosini e Daniele Timpano, rompendo per la prima volta il loro consolidato gioco a due, sono affiancati in scena da Marco Cavalcoli, che con la sua specificità di interprete contribuisce a creare un passo nuovo, una perfetta sintonia nella partitura di voci e gesti che trascina magneticamente l’attenzione.
Ottantanove. 1789, sinonimo di Rivoluzione Francese, non la prima in ordine cronologico ma di certo la più monumentale. 1989, sinonimo di caduta di un Muro e riconquista di libertà (forse). Si parla di rivoluzioni che hanno ridisegnato il volto dell’Europa e del mondo, ma si parla anche di quello che è accaduto nel mezzo, di quando il pari è diventato dispari, di come certi miti fondativi siano stati recepiti, interpretati, distorti, e abbiano così (in)formato l’identità moderna e postmoderna. Timpano e Frosini compongono una drammaturgia che sfugge al rischio della lezione di storia e si fa lezione di metodo: enciclopedica, straripante ma estremamente calibrata – densa di materiali letterari, documentari, musicali, teatrali, aneddoti e fulminanti inserti radiofonici, attraversando più di due secoli – trasforma ogni brano scelto in una cassa di risonanza incastonata all’interno del proprio discorso critico. Compiere una rivoluzione porta davvero ad un cambiamento radicale o non si traduce, molto più spesso, nel seguire una strada in circolo per tornare al punto di partenza, a ricadere nelle stesse dinamiche che ci si era illusi di abbattere? Si attraversa un processo di continua risignificazione di eventi e simboli, il cui potenziale viene disinnescato, fino a che perdiamo le tracce del senso originario. Il trauma diventa festa. Così in scena un pezzo del muro di Berlino, un frammento delle rovine di ogni città in guerra, è anche un semplice sampietrino, pronto al riuso; così i ritratti di Martin Lutero, di Robespierre e di Lenin diventano icone pop da sfoggiare sulle t-shirt rosse.
Ottantanove è un lavoro complesso, stratificato: non pretende di dare risposte ma innesca una forma di sincera autocritica, modulando sul palco i molteplici punti di vista. Parla di noi, ci interroga: che rapporto abbiamo con la politica, con il potere? Come sta la democrazia? Le misuriamo la temperatura mentre, febbricitante, “ha un collasso dietro l’altro”. Quello che viene colto infine in maniera lampante è il senso di impotenza, in un mondo di nuovo in guerra, che vira sempre più al nero; l’attivismo è sempre più performativo, l’eco delle parole si infrange sulle pareti della nostra bolla, e si trasforma in autoassoluzione (torna in mente Gaber: “la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente”); la “fame di rivoluzione” non riesce a tradursi in azione, perché ogni gesto appare insufficiente, isolato. “Guardiamo il mondo costretti al silenzio e all’inazione…Stiamo fermi ma dentro non si ferma mai niente”. Nel vuoto di una piazza su cui ci si affaccia ma che si fatica ad occupare (come evocato anche dal disegno luci di Omar Scala), rimane però sempre un germoglio, residuo dell’albero della Rivoluzione: bisogna solo ritrovare la forza di farlo crescere fino a diventare di nuovo ingombrante, contro ogni ordine prestabilito.
A quattro anni dal debutto – Premio UBU 2022 come Miglior nuovo testo italiano e come Miglior attore a Marco Cavalcoli, in scena a più riprese, come parte del vitalissimo repertorio della Compagnia – lo spettacolo non fa che confermare un’incredibile capacità di aderire sempre al momento attuale, di cogliere il presente in maniera acuta e spietata, fotografando la nostra condizione contemporanea e rimanendo impresso come la bruciatura di luce di un flash dirompente, aggressivo.
Mariangela Berardi
Fotografia di Ilaria Scarpa