“Il testamento dell’uro” di Stéphanie Hochet
“Perché vogliono resuscitarlo? La risposta ora mi sembra evidente: è il re degli animali in un’epoca in cui l’uomo non è la specie dominante del pianeta. È il precursore di tutti gli dèi”.
Perché a un gruppo di persone dovrebbe interessare riportare in vita l’uro? Perché riprendere in mano lo stesso sogno dei nazisti? E soprattutto, perché coinvolgere una giovane scrittrice?
Stéphanie Hochet ci aiuta a trovare risposta a queste domande nel suo romanzo “Il testamento dell’uro” (Voland 2019, Collana Amazzoni, pp. 153, euro 16) tradotto da Roberto Lana. La protagonista, una scrittrice, ogni giorno deve confrontarsi con la dura verità che guadagnarsi da vivere scrivendo è quanto mai utopistico; viene invitata a Marnas, nel sud della Francia, a un festival letterario. Sarà in questa regione francese che farà la conoscenza di personaggi inquietanti, primo fra tutti il sindaco di Marnas, Vincent Charnot, che la coinvolgerà in un progetto ambizioso quanto assurdo: riportare in vita l’uro, animale preistorico spesso raffigurato nelle pitture rupestri, risalendo geneticamente al passato. Il sogno di Charnot è lo stesso dei fratelli Heck, biologi nazionalsocialisti che, nella Germania degli anni ’20. tentarono esattamente la stessa sperimentazione. L’uro, enorme e mefistofelico bovino, doveva tornare a essere una divinità per gli uomini, così come lo era nel Paleolitico. Questo era lo scopo di Charnot ed è per questo che si serve di una scrittrice che nei suoi romanzi riserva sempre un ruolo centrale agli animali e ora, attraverso la biografia dell’uro, farà conoscere questo animale al mondo.
Il romanzo, molto lento nella parte iniziale, prende – verso la fine – una piega inaspettata, quasi noir che tuttavia costringe a delle riflessioni. Essere la specie dominante del pianeta, ci dà anche il diritto morale di uccidere altri animali?
Sara Pizzale