“IL CIELO NON È UN FONDALE” AL TEATRO INDIA DI ROMA
“Il Cielo non è un fondale”, in scena presso il Teatro India di Roma fino a domenica 10 Marzo, è uno spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Su un palco quasi completamente vuoto, se si esclude la presenza di un termosifone, un microfono con relativa asta e un fondale nero che “il guardo esclude” dal resto dell’ampio spazio a disposizione, sono solo i 4 attori – Francesco Alberici, Daria Deflorian, Monica Demuru e Antonio Tagliarini, ad animare l’ambiente scenico per l’intera durata del lavoro (1h30’).
Partendo da un sogno dello stesso Tagliarini, che riconosce in una barbona gettata a terra nel pieno centro di Roma la propria sodale artistica Daria Deflorian, prende le mosse un lavoro in cui si intrecciano, senza pausa, le confessioni, i ricordi a cuore aperto e le suggestioni degli interpreti che utilizzano tutto quanto il loro materiale emotivo per raccontarci difficoltà, paure, cadute e risalite che hanno caratterizzato parte del loro percorso di vita prima che assurgessero alla loro attuale dimensione professionale, che li vede occupare un posto preciso e indiscutibile nella realtà teatrale italiana. A questo meccanismo si sottrae la brava Monica Demuru, il cui ruolo, tra canzoni magistralmente eseguite senza alcun accompagnamento musicale e convincenti prove di recitazione nelle rare occasioni in cui la drammaturgia le prevede, pare essere diverso da quello degli altri tre compagni e che brilla di una luce differente all’interno del meccanismo complessivo del lavoro.
È un teatro, quello di Deflorian e Tagliarini, che risponde alle esigenze classiche tramite meccanismi non comuni. Non risponde né a criteri strettamente performativi né tantomeno a canoni prestabiliti di recitazione. Si racconta al pubblico di sé, di altri e di molto altro ancora, creando, o tentando di creare, senza fronzoli, un’empatia che travalichi le differenze di ruolo stabilite dalle posizioni ricoperte tra palco e platea. Nelle loro storie ciascuno degli spettatori riconoscerà, forse, parte della propria, ma non dovrà arrivarci attraverso percorsi arzigogolati. Le parole sono lì a disposizione di tutti e chi le pronuncia ha sì il ruolo fondamentale di metterle a disposizione, ma si spoglia di ogni possibile onore legate a esse. Si è a un buffet di lemmi, sostantivi, aggettivi, verbi che sfameranno chi vorrà essere sfamato e non turberanno chi è arrivato a stomaco pieno. Questa gentilezza e disponibilità è probabilmente il grande pregio di uno spettacolo che, d’altro canto, rischia di risultare ridondante nella sua ricca proposta verbale.
Giuseppe Menzo