I due gemelli veneziani secondo Malosti: un thriller convincente
Dicembre 2020. In streaming (gratuito) dal Teatro Goldoni di Venezia, andava in onda una nuova produzione del Teatro Stabile del Veneto: ovviamente eravamo tutti troppo avviliti dalle quarantene, dalle zone rosse, dalle restrizioni, e così nessuno ne parlò seriamente. Ora quello stesso spettacolo sta viaggiando fra il centro e il nord: è stato al Piccolo di Milano, al Metastasio di Prato; sarà al Sociale di Trento, al Verdi di Padova, al Sociale di Brescia, al Toniolo di Venezia, e poi ancora al Salieri di Legnago, a Treviso, Vignola, Bologna, Modena. Noi lo abbiamo visto il 30 dicembre 2021 al Teatro Astra di Torino, in Campidoglio, dove è rimasto dal 21 al 31. Si tratta de I due gemelli veneziani, celeberrima tragicommedia di Carlo Goldoni scritta e rappresentata per la prima volta nel 1747 a Pisa. La trama, come alcuni già sapranno, si articola sull’equivoco che vede scambiati, a più riprese, due fratelli identici nell’aspetto ma diversissimi nel comportamento: Zanetto, lo sciocco, cresciuto a Bergamo; e lo scaltro Tonino, di Venezia. Entrambi si trovano a Verona: Zanetto deve incontrare la sua futura sposa, Rosaura, e Tonino si vede con la sua amata Beatrice. Presto si sviluppa il fraintendimento, le cui conseguenze saranno disastrose.
In regia c’è Valter Malosti, instancabile esponente del palco contemporaneo, che immerge la situazione nelle sue (solite) tinte lugubri: l’intreccio di malintesi conserva poco della visione ridanciana cui forse siamo abituati (e che probabilmente era propria del pensiero goldoniano), e si trasforma in una sorta di thriller grottesco che per certi versi ricorda i film di Hitchcock o i quadri di Ensor. Perché quest’atmosfera sinistra si espanda verso la platea, basta anche solo l’incipit: Pulcinella, macabro narratore esterno che però una tantum visita il palco, parte dalla fine della storia, scherzando sul cadavere dello sconfitto. In realtà questa scena, nel testo originale, non esiste: Goldoni parte subito dal bisticcio fra Rosaura e Colombina; ma, evidentemente, si tratta di un espediente registico che funziona (se si osserva il tutto dal punto di vista di Malosti), poiché instaura un contatto diretto fra attore e spettatore. La quarta parete trema. Da qui si decolla, volando basso, verso un perpetuo divertimento amaro e intriso di buio: sì, per carità, Zanetto può farci ridere, ma solo se ci fermiamo ad un’analisi superficiale delle sue battute. In questo senso, Malosti sta esaltando la commedia nel suo stadio più puro e raffinato… ovvero quello tragico. E l’estetica cupa, tetra, in effetti ben si sposa con questo ragionamento, poiché in tal modo si prende per mano l’astante e lo si conduce verso il testo più profondo, verso un subconscio collettivo (nel quale, cioè, nuotiamo tutti) dove potersi misurare con la compassione. Non c’è comicità, ma umorismo. Se poi si considera che è la prima esperienza goldoniana del regista, allora si può facilmente concordare che il risultato sia quantomeno soddisfacente, se non illuminante o quasi. Certo, la sua concezione si è concretizzata anche grazie ad un team iper-collaudato, che sa come trasformare un’idea in un fondale o in una musica. Innanzitutto, va citata Angela Dematté, che ha curato l’adattamento del testo. Ci sono poi (i soliti) Nicolas Bovey per le scene e le luci, Gianluca Sbicca ai costumi, Gup Alcaro ai suoni e Marco Angelilli alla cura del movimento. Il cast, infine, è equilibrato. O, per meglio dire, si controbilancia in autonomia: vi è un gruppo di attori forti, capacissimi, che talvolta cede il passo ai colleghi meno estroversi, ai quali comunque sono stati affidati ruoli forse meno intensi. Fra i più lodevoli si annoverano i seguenti. Irene Petris, che con la sua Beatrice porta più pathos di chiunque altro. Marco Foschi, che passa da un gemello all’altro con una disinvoltura spaventosa. C’è poi Marco Manchisi, il cui Arlecchino conserva forse quel tono da commedia dell’arte originale, col suo accento veneto posticcio del servo che fa il verso al padrone. Manchisi, in effetti, è anche Pulcinella, e quando veste la celebre maschera di Bergamo sembra quasi un personaggio nel personaggio: nasconde la parlata napoletana con una parodia del dialetto lagunare, dando quasi l’impressione di un Pulcinella travestito da Arlecchino. D’altronde fra gli equivoci si sguazza, e come Rosaura non è la figlia naturale del dottor Balanzoni, così magari il sottoposto di Zanetto non è davvero di Bèrghem. Infine, stupisce l’autorevolezza con cui Alessandro Bressanello s’impone sul dottor Balanzoni, avvocato in Verona.
Questa versione dei Gemelli di Goldoni è, tutto sommato, oltremodo riuscita: i contenuti abissali della vicenda, che non possono essere inquadrati in questo o quel testo critico, palpitano in una resa che può piacere o meno, ma che oggettivamente si pone l’obiettivo di scavare nella posologia del paradosso. E, per concludere, ci permettiamo di suggerire qualcos’altro: posto che non augureremmo a nessuno di potersi immedesimare in lui, vi è però un sentimento che si dovrebbe provare a un certo punto nei confronti di Zanetto, qui in qualche modo protagonista ben più di suo fratello Tonino: è la pietà, quella forza straordinaria che avvicina i fortunati ai vinti. E l’arrangiamento di Malosti&co., in qualche modo insondabile, costringe alla pietà di cui sopra, lasciandoci intendere quanto siano essenziali attitudini come l’empatia e il fair play.
Davide Maria Azzarello