CONTRO LA CECITÀ DELLE PRIGIONI: “LA MONACA DI MONZA” DI MALOSTI

Torna al (suo) Teatro Franco Parenti, Giovanni Testori, in questi primi mesi del 2019. Ad aprire ufficialmente il Progetto a lui dedicato, l’attesissimo nuovo allestimento de “La Monaca di Monza”, in scena fino al 3 marzo, affidato alla regia di Valter Malosti e a un’interprete come Federica Fracassi, entrambi già molto legati in passato al lavoro del grande autore di Novate. Ampia la rete di coproduzione, che vede affiancarsi al Parenti anche il TPE – Teatro Piemonte Europa, il Centro Teatrale Bresciano e Teatro di Dioniso. Scritta da Testori nel 1967, quest’opera ammalia e invischia nella forma mirabile di una lingua italiana dispiegata nel pieno delle sue potenzialità, traspone la vicenda storica in uno spazio sconfinato e claustrofobico assieme, in un tempo fuori dal tempo, dove ciò che è accaduto ritorna vivo nel presente, e allo stesso modo il ‘900 innerva coi suoi dettagli quel mondo passato, mentre le ombre dei protagonisti, “pupazzi senza forma né senso, fantocci di carta, mucchi di polvere e stracci”, levano le loro voci e i loro resti dalle tombe. Come il Verbo una volta si è fatto carne, adesso la carne, con fatica, si fa verbo.
Marianna De Leyva (Federica Fracassi), Signora di Monza, figlia generata nel rifiuto, venuta al mondo per accidente e chiusa in convento per imposizione, lei che non ha mai saputo pregare. Suora col nome di Virginia Maria, poi amante di Gian Paolo Osio, giovane ma già assassino (Vincenzo Giordano, esplosivo nei contrasti del suo personaggio), infine madre di un bambino già morto, preda volontaria di un amore dannato eppure inevitabile. Cercando di nascondere il loro legame, si macchiano di altro sangue e altre morti, prima tra tutte quella della novizia Caterina (Giulia Mazzarino, delicata e incisiva insieme), figura dolente nel suo tentativo di un ricatto impacciato, alla ricerca di un po’ di piacere, di amore, di vita anche per sé. E mentre il sistema corrotto viene messo a nudo, concreta è l’immagine di una Lombardia marcia essa stessa, divorata dalla nebbia di lacrime e di fumi industriali che sale, attraversata dal Lambro torbido e infetto, inquinata dalla peste di allora e dalle fabbriche di oggi, soffocata dalla città che cambia e avanza, inondata infine dal sangue, putrida emorragia che in sogno Marianna vede sgorgare dal suo corpo di donna, da quel corpo che non ha dato la vita ed ha desiderato la morte. Se nel testo originale molti di più erano i personaggi evocati in scena, Valter Malosti sceglie nella sua drammaturgia un’esecuzione per tre voci raggiungendo una sintesi che se possibile amplifica ancora di più la forza dirompente dell’opera, oltre che esaltare la natura di monologo celata dalla struttura dialogica. Il regista non cede inoltre a nessuna rappresentazione scenografica di contesto, affidando al progetto sonoro curato da lui stesso il compito di rendere concreta la sovrapposizione temporale ideata da Testori: in una nuvola di suoni tesa e scura, la pioggia e il gocciolio dell’acqua in prigione, il gracchiare delle interferenze radio, l’organo della preghiera e la musica che innesca il ballo, le campane e il campanello del tram. E poi il silenzio, il vuoto.
“Tornati nel grembo inconoscibile e immenso, nella melma indistinta e indefinita del nonessere eterno”, Marianna, Gian Paolo e Caterina sono animali in gabbia, urlano e denunciano se stessi isolati nelle celle della propria condanna (scenografia tripartita di Nicolas Bovey, che ha curato anche le luci). Costretti a ripercorrere una storia che non si può cambiare, intrappolati in quel che è già stato, si dibattono nella loro prigione, cisterna, fossa, ventre di terra in cui è impossibile riposare in pace; icone blasfeme contaminate da un’estetica rock, che si stagliano come nelle tavole di un trittico di cui rompono poco a poco le catene di frontalità, confini e dogmi; figure scolpite da tagli di luce, sospese nel fondo nero che dal dipinto caravaggesco giunge ai video di Bill Viola, in una narrazione che ha lo stesso andamento e lo stesso pathos di un calvario, come nelle scene del Sacro Monte che per Testori era gran teatro. Dal medioevo al rinascimento lombardo alla più pura arte contemporanea. Marco Angelilli cura i movimenti seguendo sempre la linea di questa icastica concentrazione di senso, ed evidente è l’estrema attenzione all’equilibrio compositivo delle parti; nulla è superfluo, tutto è soppesato all’interno del campo visivo e dell’economia scenica per arrivare a un risultato finale che è, nella percezione, perfetto. La potenza visuale della messa in scena sta tutta in questo sincretismo artistico e storico di epoche che dà vita ad un lavoro estremamente complesso e contemporaneo, come lo è secondo Giorgio Agamben “colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia”.
In questo universo di suono, immagine e tempo, la Marianna De Leyva di Federica Fracassi è cuore pulsante di sdegno e di rabbia, di femminilità, ribellione e devastante bellezza. Strappandosi di dosso l’apparenza di suora mai accettata (effetto dirompente, grazie ai costumi studiati da Gianluca Sbicca), scandaglia il suo animo con dolore e fermezza, riapre le cicatrici di quel lancinante dramma interiore; in esso trova forza per rialzarsi ed ergersi “vincitrice e padrona” nei secoli. Nella sua voce rimbomba il violento atto d’accusa contro sua madre e suo padre, contro quell’amore terribile e mai finito, infine contro Dio. Nessun pentimento e nessun perdono. Fino alla preghiera profana, in cui la fragilità della richiesta di un semplice sguardo dall’alto sfuma subito nel sapore del ricatto e nella sfida mortale a un Dio che forse non c’è mai stato. “Niente finisce e niente comincia, Gian Paolo. Tutto resta fermo così, senza risposta”.
Mariangela Berardi
Foto di Laila Pozzo