Gli Angeli dell’Elfo si raccontano
La nostra Roberta Usardi ha incontrato i giovani attori di “Angels in America”, l’opera in due parti scritta da Tony Kushner, allestita da Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani e in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano fino al 24 novembre.
Cominciamo con il protagonista di questo capolavoro, Angelo Di Genio che veste i panni di Prior Walter, un giovane omosessuale che si scopre malato di AIDS e che viene abbandonato dal suo compagno ma che, allo stesso tempo, è scelto come Profeta.
R.U.: Hai un ruolo importante che implica non solo capacità attoriale, ma anche fisica, come stai vivendo questa esperienza?
A.D.G.: Ho visto “Angels in America” quando debuttò a Modena al Teatro delle Passioni, quindi l’ho visto prima da spettatore, restandone folgorato: era uno spettacolo stupendo, con attori bravissimi, tra cui anche Edoardo Ribatto nel ruolo di Prior, che ora spetta a me. Quando mi hanno detto “Lo riprendiamo, ti andrebbe di fare Prior?”, un sogno! Ho accettato. La fatica fisica c’è, ma la faccio con grandissimo piacere: lo spettacolo passa attraverso tanti linguaggi diversi, quello onirico, quello reale, il dolore fisico come, ad esempio, il momento in cui Prior ha una crisi prima di essere portato in ospedale, vediamo che è montato registicamente come una tragedia, con un taglio laterale che predilige il massimo della disperazione. È faticoso, ma è il modo migliore per raccontare la storia di questo personaggio: un giovane ragazzo a cui viene diagnosticato direttamente l’AIDS, perché negli anni ‘80 non era diagnosticato il virus, ma direttamente la malattia, e quindi il progressivo ammalarsi. E qui subentra anche il progressivo abbandono da parte del fidanzato, che penso sia un elemento molto contemporaneo: subire la mancanza di empatia da parte di qualcuno che ami, ma che non riesce a reggere il tuo dolore. Questa è una cosa che Prior purtroppo deve subire. Nella prima parte tutto questo è molto faticoso, non solo fisicamente ma anche emotivamente.
R.U.: Come ti sta cambiando a livello umano questa esperienza?
A.D.G.: Ha confermato tutta una serie di cose: la prima in assoluto è la forza del gruppo, questo è uno spettacolo in cui ci sono tantissimi personaggi forti, potenti, tra cui Prior stesso che permette di seguire una linea di racconto dall’esterno, però la forza del gruppo di attori aiuta a tirare fuori l’energia e probabilmente conferma che è finita l’era del teatro fatto da soli, perché il progetto è al centro di un gruppo di lavoro che insieme porta avanti il tutto. L’altra cosa è l’empatia nei confronti del pubblico che è la caratteristica più forte del teatro oltre alla scelta del testo. È proprio il trovarsi lì sul palcoscenico a far sì che la comunicazione empatica dell’attore possa esistere tutte le sere ed è questo che fa del teatro una cosa unica.
R.U.: Come ti sei avvicinato al personaggio di Prior?
A.D.G.: Prima di tutto studiando Edoardo Ribatto. È stata fatta una sostituzione, quindi è stato necessario studiare quello che veniva fatto nel primo spettacolo per riuscire a rifarlo e poi mettere dentro quello che invece è la nostra interpretazione personale sui personaggi. Ti avvicini a un mondo che è quello della comunità LGBT, che io conosco molto bene, di cui i valori, ideali e cultura porto avanti da un po’ perché da un lato mi appartengono e dall’altro credo che l’omosessualità venga ritenuta tale per una questione sessuale, invece quello che va ribadito è che si tratta invece di una questione culturale e sociale. I valori sono universali.
Accanto a Prior troviamo la nostra “cherie bichette”: l’infermiere, l’amico Belize; e Mr. Bugia, il personaggio immaginario, entrambi interpretati da Alessandro Lussiana.
R.U.: Nel ruolo di Belize tu sei il sostegno emotivo di Prior. Sei quello che, lavorando in ospedale, capisce anche di più…
A.L.: Lui è il migliore amico di Prior, loro sono stati amanti in passato, ma ho sempre pensato alla loro relazione come leggera e giocosa, da cui poi nasce un’amicizia molto forte, che si consolida nel momento in cui affrontano questo mostro, che è l’AIDS. Belize ha dalla sua parte una predisposizione professionale, dato che fa l’infermiere; ha una grandissima umanità e una grandissima capacità di prendersi cura dell’altro laddove l’altro in questo caso è il suo migliore amico, quindi questa capacità diventa esponenziale, gli vuole molto bene, gli sta molto accanto ed è un po’ il contraltare di Louis, che per le sue ragioni lo lascia. Io, invece, gli sto sempre più vicino. Belize non sta solo vicino a Prior, ma lo vediamo poi accostato a un altro personaggio, Roy Cohn, che incarna invece quanto c’è di più lontano da Belize, come i valori di inclusività che questo testo porta, perché Cohn è il grande evil sia a livello storico, perché era una figura esattamente come quella descritta da Kushner, sia a livello di spettacolo. E questa è la caratteristica che mi piace di più di Belize, la sua capacità di empatia e umanità che va al di là di qualsiasi barriera, anche di fronte al proprio nemico; riuscire a perdonarlo, a curarlo lo stesso, alla sua maniera, che può essere caustica, può apparire sopra le righe, ma che poi ha una tridimensionalità, un profondità che lo rendono molto umano, quasi come fosse lo spirito dell’omosessualità, dell’inclusività a livello razziale, a livello di orientamento, per saper amare e perdonare anche un personaggio come Roy Cohn.
R.U.: Belize racchiude in sé molti punti delicati, che emergono soprattutto nella scena in cui si trova al bar con Louis…
A.L.: C’è una battuta del rabbino all’inizio che dice “questa è una terra in cui le cose non si mescolano”, ed è vero. La gente ha creato una nozione, alimentandola con affluenti diversi che non si sono mai mescolati, ma che hanno formato un melting pot unico al mondo, perché è un paese quasi senza storia, con un’identità che non è definibile, proprio perché puoi incontrare gli ebrei, i mormoni, i bianchi, i neri, i gialli; dove si perdono i confini delle differenze. Il risentimento che porta dentro Belize nei confronti di questa ”non accettazione”, di questo sapersi diverso, costantemente diverso in una società che sulla carta sembra accettare tutti, ma che poi in realtà non è così inclusiva, è una ferita che sente e che porta avanti, ed è quello che lo rende umano, paradossalmente. Spesso alle ferite noi reagiamo in maniera opposta, chiudiamo il canale dell’umanità perché ci sentiamo feriti e allora diventiamo duri col resto del mondo. Lui appare duro a volte, perché è capace di essere anche molto tagliente, ma allo stesso tempo quel canale dell’umanità non l’ha mai chiuso, ha vissuto la sua ferita fino in fondo, ci si è immerso al punto da trasformarla in un valore, in un’arma che poi a volte diventa empatia.
R.U.: Tu interpreti anche Mr Bugia, che è l’effetto allucinatorio del Valium che assume Harper, è solo quello o… tutti abbiamo dentro un Mr Bugia?
A.L.: Tutti abbiamo il nostro personale Mr Bugia, è molto interessante che Tony Kushner nell’elenco dei ruoli o dramatis personae, come si dice in latino, metta l’indicazione che debba essere lo stesso attore che interpreta Belize a interpretare Mr Bugia. Non è l’unico caso di doppio ruolo ma, sicuramente, è una cosa interessante. È un personaggio che arriva da un’umanità disturbata, però in realtà credo sia creato dalla parte di Harper che è più sana, più profonda: lei ha bisogno di inventare qualcuno per fuggire dalla realtà. È un personaggio immaginario dalle caratteristiche strane, perché lo ritroviamo in altri mondi, è un’allucinazione e lui stesso si definisce come tale; porta Harper a sorridere, cosa di cui lei ha molto bisogno. Un personaggio surreale, ma umano, studiato nella fisicità, nel modo di parlare, con un’amplificazione a livello registico che lo rende sopra le righe.
Parlavamo di Belize come contraltare del compagno di Prior, Louis, che qui è Umberto Petranca.
R.U.: Torni nei panni di Louis a distanza di molti anni, quindi la domanda nasce spontanea: come ti trovi a reinterpretare questo ruolo dopo tanto tempo?
U.P.: Chiaramente è stata una sorpresa e una grandissima fase di riscoperta. Quando ho debuttato con Louis avevo 27 anni e ora le modalità son state diverse: anni fa il personaggio è uscito insieme agli altri durante un periodo di prove più lungo, adesso sono stato catapultato a confrontarmi con altri attori nell’arco di una decina di giorni di prove. Ma, paradossalmente, quando si stringono i tempi si è costretti ad accedere immediatamente a un livello più profondo, e questo fa emergere cose nuove e inaspettate, che non erano venute fuori in passato durante mesi e mesi di prove, tour e repliche, e questo mi ha fatto riflettere in senso più ampio sull’arte del recitare, nel senso che non è detto che tante prove significhino scoprire tanto, a volte la sorpresa può arrivare da una situazione spiazzante e un personaggio può crescere, può evolvere anche quando è messo in una situazione come questa, con un cast rinnovato dove abbiamo dovuto riscoprire i rapporti, crearli, e anche generando cose estremamente diverse rispetto alla messa in scena precedente.
R.U.: Louis mi colpisce perché è molto combattuto: vuole stare vicino a Prior, ci prova, non ce la fa, scappa, ha rimorsi, vuole tornare, poi tenta di sfogarsi, è molto controverso, alla fine riesce a tornare… Come è stato il tuo modo di avvicinarti a questa grande complessità di carattere e di interiorità di Louis?
U.P.: È stato un modo istintuale, nel senso che inizialmente il personaggio di Louis muove tutta una serie di valori e di riferimenti che attingono alla storia del personaggio, quindi al suo essere ebreo, al senso di colpa che si porta dietro: c’è la battuta del rabbino quando lui si reca alla bara e gli dice che gli ebrei non credono nel perdono, credono nella colpa, e questa espressione fa innescare tutto. Lui inizia a vivere col senso di colpa il distacco da Prior, il desiderio di esserci e il fatto di amarlo, quindi è stata una riflessione in qualche modo per capire veramente cosa potesse significare per un ebreo ricevere questo tipo di stigma, che è la malattia del suo partner. Poi c’è stato un avvicinamento interiore, più personale: mi sono chiesto cosa significasse per me, che cosa evocava e anche quanto questo dibattimento interiore scaturisse dal rapporto che si instaurava in scena coi personaggi; quindi non semplicemente da un vissuto emotivo, ma anche da una comunicazione.
R.U.: Tu pensi che l’incontro con Joe Pitt sia fondamentale per l’evoluzione di Louis e il suo ritorno da Prior?
U.P.: Assolutamente sì. Lui con Joe vive questa fuga totale per cercare di dimenticare quello che è accaduto, poi quando si trova di fronte al fatto che Joe va a braccetto con Roy Cohn viene riportato alla realtà e viene costretto ad agire e a ad elaborare il ritorno. La cosa interessante è che in Louis c’è molto di Kushner: è lui di fatto la voce che porta il suo pensiero. Kushner spesso dice di vivere l’aspetto del dibattimento politico carico di una valenza erotica, per lui è un valore erotico parlare di politica, non a caso tra Joe e Louis si innesca questo tipo di comunicazione. Poi, sempre Kushner dice di essere sempre stato affascinato dalla religione dei Mormoni perché come l’Ebraismo, la religione dei Mormoni dà molta importanza al concreto, agli atti pratici, alle opere di bene. Nonostante Louis si senta distante dall’aspetto religioso, è sempre rimasto affascinato dal mondo mormone. Il modo in cui un drammaturgo può mettere se stesso all’interno dei personaggi e rifletterli nella storia è un aspetto che mi ha molto incuriosito e affascinato per la dimensione che la scrittura è in grado di raggiungere.
Louis si lega a Joe Pitt, avvocato “gay repubblicano” interpretato da Giusto Cucchiarini.
R.U.: Joe è un mormone con un conflitto interno che però emerge nel corso degli eventi. Come lo vedi e come vivi tutto questo?
G.C.: Joe ha il profilo di un personaggio specifico americano, però penso abbia anche aderenze con quello che possiamo vivere in Europa, in particolare in Italia. La sua formazione è religiosa e lo costringe a intraprendere una vita che non coincide con i propri desideri e la sua vera natura, quindi vive questo conflitto come lo potrebbe vivere, io credo, una persona adulta imbevuta in valori cattolici che deve fare i conti con una natura che lo spinge a dei gusti sessuali in opposizione rispetto ai valori della chiesa cattolica; quindi, lo sforzo di immaginazione non è stato così difficile. Naturalmente ha delle caratteristiche specifiche essere mormone; per esempio, il senso di colpa per la chiesa cattolica è una questione individuale, cioè io sono responsabile davanti a Dio della mia vita, mentre nella chiesa mormone non è così, perché io divento responsabile per tutta la mia famiglia davanti al profeta; di conseguenza è come se il senso di colpa che vive Joe Pitt fosse non solo per la propria vita, ma anche per l’imposizione che ha ricevuto dalla famiglia e dagli avi, quindi è un senso di colpa gigantesco. È stato uno sforzo di fantasia, però penso che sia stato facile. La scrittura di Kushner è molto molto organica, quindi nel momento in cui si riescono a individuare i nodi principali di partenza diventa più semplice svilupparla. Ci vuole una grande sensibilità.
R.U.: Harper ha un ruolo fondamentale per Joe, un po’ come una colonna che però quando crolla, lo riduce in frantumi…
G.C.: Harper è un detonatore. Avere il senso di responsabilità nei confronti di una compagna che sta vivendo un momento di grande difficoltà lo ancora a New York, lo tiene lì, ma in realtà è anche un modo per nascondere i propri problemi. Quando il loro rapporto deflagra, lui affronta una via crucis alla ricerca della propria felicità che lo porterà a fallire, ma almeno ci prova. Harper rappresenta il desiderio di volerla far stare bene, ma è anche un modo per non confessarsi certe cose, fino a quando queste cose non diventano inaffrontabili.
R.U.: Un’altra cosa è il rapporto con la madre: Joe non ha avuto una figura maschile di riferimento, che poi trova in qualche modo in Roy Cohn; è invece sua madre che, alla fine, riesce ad avere molto di più e anzi aiuta altri personaggi ma non riesce ad aiutare il figlio.
G.C.: La madre entra in empatia con i problemi di Prior e non del figlio. Io e Ida Marinelli, che interpreta mia madre, abbiamo discusso molto spesso di questo, Ida pensa che il motivo scatenante sia perché Joe l’ha abbandonata a Salt Lake City per seguire la propria carriera. Penso sia stato educato a dei valori che non riesce a rappresentare nella propria vita e, di conseguenza, pecca di incomunicabilità: non parla con la madre da non so quanto tempo, forse non ha mai parlato di sé e nel momento in cui si trova nei guai fino al collo, prova a usare questo canale comunicativo, ma non viene capito, quindi ricadono nel non-dialogo e continua tra loro una lotta, una sorta di odio. È molto doloroso il rapporto di Joe con sua madre, anche se è l’unica rimasta accanto a lui.
R.U.: Per fortuna ha almeno un briciolo di felicità con Louis…
G.C.: Ha un briciolo di felicità, di speranza, che però fondamentalmente non lo porta davvero verso il coraggio di scegliere per la propria vita. Rimarrà incastrato anche in questo rapporto, senza assumersi le sue responsabilità fino in fondo e senza affrontare la propria fragilità, uscendone sconfitto.
Joe è il marito della bellissima Harper, una valium dipendente persa nelle sue visioni demoniache e in lunghi viaggi con amici immaginari. Lei è Giulia Viana.
R.U.: Come vedi il personaggio di Harper? Che tipo di evoluzione ha per te?
G.V.: Per me è un grande onore interpretare questo ruolo, perché è una grandissima sfida. Harper, come tutti gli esseri umani, è un personaggio che ha le sue grandi fragilità e deve cercare di ricostruirsi e ricostruire le sue certezze per poter continuare a vivere. Quindi, se devo pensare a un’immagine, penso a un mucchietto di sabbia che deve diventare alla fine un castello bellissimo, però sempre di sabbia si tratta; la immagino come un insieme di piccole parti che devono cercare di stare insieme, ma purtroppo, non avendo avuto delle basi solide, non riesce mai a sentirsi sicura di sé, per cui si deve sempre appoggiare a qualcuno, e quando quel qualcuno, in questo caso Joe, non le dà questa sicurezza, lei comincia a crollare e a dipendere dal valium, quindi vede altre cose. La meraviglia di questo testo è che Harper, nelle sue visioni, intercetta un’altra fragilità, quella di Prior, e attraverso di lui ha delle rivelazioni. Quindi, la bellezza è lasciarsi precipitare, distruggere per poi lentamente ripartire e ricostruirsi, ed è per questo un viaggio bellissimo, un viaggio che facciamo tutti insieme, perché ognuno di noi contribuisce alla rottura e alla ricostruzione dell’altro. Ci sono delle grandissime tensioni che esplodono, per esempio tra il mio personaggio e quello di mio marito, e ferite che invece si leniscono, come quelle del rapporto tra me e Prior. Tra questi personaggi abbiamo Mr Bugia che è assolutamente la creatura che aiuta Harper nella prima parte ad evadere, nella seconda parte a rendersi conto che da soli non si va da nessuna parte, quindi l’apatia e l’assenza di sentimenti in realtà non generano nulla, per cui la sua posizione diventa molto più critica, ma deve attraversarla per poter rinascere.
R.U.: Secondo te è grazie a Mr Bugia se poi decide di prendere in mano la sua vita?
G.V.: Penso che sia grazie a Prior, perché Mr Bugia in qualche modo è un’evocazione del suo pensare, del suo mondo, del suo immaginario; mentre gli incontri che ha con Prior, che profetizza anche per quanto riguarda la sua vita, riescono a farle riscoprire dove si trova la bellezza, una bellezza che lei aveva già dentro e doveva solo ritrovare. Quindi, è meraviglioso poter fare questo viaggio. Faticosissimo, ma davvero gratificante.
R.U.: Harper è un personaggio altamente emotivo, che ha voglia e bisogno di comunicazione, affetto e attenzione e lo rivendica parecchio, questo poi la aiuta a far frantumare l’altro, Joe, per arrivare a capire quello che sta cercando…
G.V.: Assolutamente, lei dall’inizio dipende moltissimo dagli altri, da suo marito, ha sempre bisogno di qualcuno perché soffre di depressione da tempo, una depressione trascurata, curata male e questo la porta ad avere sempre delle persone a cui aggrapparsi. Fortunatamente riesce a trovare dentro di sé tutte le risorse per poter andare avanti.
R.U.: Secondo te Harper guarisce o trova il modo di agire per poter guarire?
G.V.: Penso che riesca a trovare nel suo percorso delle grandi risorse interiori, a dirsi delle verità, a mettersi in discussione, e questo la porta a cambiare, però lascerei allo spettatore la sensazione di quello che lei diventerà perché è molto aperta questa domanda, lei sicuramente cambierà.
Ringraziamo tantissimo i ragazzi di “Angels in America” per le loro parole e, vi ricordiamo che lo spettacolo sarà in scena fino al 24 novembre. La prima e la seconda parte verranno proposte consecutivamente in maratona domenica 10 e domenica 17 novembre. Non perdetelo!
Per maggiori info www.elfo.org
Roberta Usardi