Diario di un dolore: Lewis sul palco delle Colline Torinesi
Io ho accettato di raccontare la mia storia su un palco, però ho chiesto come tutela che alcune cose venissero dette, che altre venissero sfumate e che altre ancora venissero inventate di sana pianta.
Torino, venerdì 21 ottobre. Fuori da Off Topic c’è il pienone e una fila per chi è in lista d’attesa. Nel cortile interno attiguo al bistrot, Francesco Alberici distribuisce vino e grissini. Rosso o bianco? Fa freschino, direi rosso, ma qua ci serve anche un nuovo video cinico con la Giraud, gli dice qualcuno. Si entra e si chiacchiera, le luci rimangono accese. Unica scenografia: un tavolo. Per il resto il palco è nudo. Comincia una parte parlata fra Alberici e Astrid Casali: per un secondo credi ti vogliano dire qualcosa prima dello spettacolo, poi capisci che ci sei già dentro. Non c’è performance, ma vita. Quand’è stata l’ultima volta che hai pianto? Non ti ricordi come ci sono arrivati, ma stanno disquisendo già di dolore. Poi virano e allora si canta tutti insieme l’Internazionale: siamo di sinistra e ne andiamo fieri. Fra l’altro un’ora prima è uscita la lista dei ministri del più recente governo, e questa coincidenza dà a quell’inno un sapore diverso: per un glorioso istante c’è aria di sovvertimento. All’inizio sembra che questo dolore vogliano analizzarlo solo tramite l’ironia, ma quando Alberici, d’un tratto, racconta di C. S. Lewis e del suo amore per la moglie morta improvvisamente, si percepisce che c’è dell’altro. L’autore di Belfast, arcinoto per via del ciclo di Narnia, verso i cinquant’anni decide infatti di incontrare una sua ammiratrice americana, Joy, che poi sposa. Passano insieme appena tre anni, e da quest’esperienza nasce A grief observed (Diario di un dolore), la sua ultima opera: Lewis si riunisce a Joy tre anni più tardi.
Alberici e Casali, qui, sono il regista e l’attrice ma in fin dei conti anche Francesco e Astrid, più semplicemente, nel senso che non hanno voluto plasmare dei personaggi, ma riferire un segmento della propria biografia. E allora, per l’appunto, irrompe la vita: i due ballano sulle note di Disorder dei Joy Division. Stop, tocca a lui: esordisce con Dovrei smettere di fumare. Ha il fiatone. E spiega l’altro principio dello spettacolo: Frigidaire, e dunque qualche aneddoto su Franz Ecke e il suo ritratto dal volto fasciato. Lei invece affronta la morte del padre regista; la malattia e lo svilimento che ne consegue. Le esperienze corrono parallele: si alternano i racconti. Lui interpreta il medico per lei, lei la nonna per lui. Alberici tenta un ragionamento ma non funge benissimo: una scala di dolori, A fa più male di B benché B faccia più male di C. Chissà, forse sì, forse esiste una gradazione che va dal mellino sbattuto sul comodino a un genitore che sopravvive al figlio. Tuttavia, appunto, gli esseri umani, con le loro esistenze esigue, non possono esperire tutto il campionario di disfatte che la vita ha da offrire, quindi come possiamo stilare delle liste? Finalmente un microfono. Usato però una tantum, a seconda dell’inflessione che si vuol dare. Battute fra il demenziale e il cinico. Lezioni di testate: come fingere di picchiare la testa sul tavolo, ci insegna Astrid. Se hai i capelli lunghi ti riesce meglio, interviene lui, perché dissimulano il fatto che non stai davvero toccando la superficie col naso o la fronte. Infine serve che sbatti la mano e che esasperi o reprimi il dolore. È tutto un oscillare fra risate e serietà. Menzogne e mezze verità. Il grottesco come stile, come carta di presentazione. Il padre di Astrid aveva deciso che il suo funerale doveva essere una festa: un funerale a teatro è ancora un funerale o diventa una pièce? O forse un funerale è una messinscena pure dentro una chiesa? Francesco e Astrid fanno quello che facciamo tutti: (si) pongono delle domande. Ma mica esistono le risposte. Lei allora recita una poesia per il suo papà: dal soffitto piovono decine di palloncini colorati. Perchè ricordiamo le cose, e non ce le lasciamo direttamente alle spalle? Intanto si continua a ridere, perché talvolta i due propongono dei ragionamenti alla Bojack Horseman: pur affrontando la sofferenza, è la volontà di non risultare grevi ad agire da grimaldello. Lei giunge infine al suo culto del pianto: piangere è la catarsi della vita individuale, l’apice biofisico della nostra umanità. Metabolizzare, digerire. Sistemano una tovaglia, una caffettiera, delle tazzine sul tavolo. Lei si siede per la sua colazione, lui sta in disparte. Luci spente, finalmente. Astrid ricrea la scena in cui, adolescente, le danno la notizia, ed ecco che torna ancora il grottesco – la vita procede nonostante la morte, benché si tratti di papà – e così si mette a ricopiare la versione di greco che c’era per compito. Piange, e non solo per il fatto in sé, ma anche perché la volta in cui è accaduto davvero non ci è riuscita. Il pianto è l’inizio o la fine del dolore, delle storie? Lei esce, fisicamente, dalla porta antincendio. Parte Immensità di Andrea Laszlo De Simone. Applausi convinti. Alcuni spettatori sono visibilmente commossi.
Diario di un dolore è andato in scena anche sabato 22; l’ambito è quello delle Colline Torinesi, un festival che non tradisce mai le aspettative. Lo spettacolo, nato due anni fa in una Roma ancora pandemica grazie anche a Ettore Iurilli e Enrico Baraldi, è suggestivo, coinvolgente e misurato.
Davide Maria Azzarello