Torna Teatri di Vetro con “Oscillazioni” in streaming dal 15 al 21 dicembre – Intervista alla direttrice artistica Roberta Nicolai
Il teatro, dove può, non si ferma. È una notizia rincuorante in questo momento in cui la cultura è penalizzata, anche se l’unico modo possibile per raggiungere il pubblico è lo streaming. Così ha fatto Teatri di Vetro, il festival delle arti sceniche contemporanee, arrivato quest’anno alla sua quattordicesima edizione, dal titolo Oscillazioni, che ha accettato la sfida del video. Il festival verrà trasmesso in diretta dal 15 al 21 dicembre sul canale YouTube e la pagina Facebook di Teatri di Vetro. Il festival è suddiviso in quattro sezioni: Trasmissioni, Elettrosuoni, Composizioni e Oscillazioni; la prima sezione Trasmissioni è stata l’unica, a fine settembre, ad aver avuto il pubblico in presenza. Abbiamo raggiunto telefonicamente la direttrice artistica Roberta Nicolai, per farci raccontare il grande lavoro svolto per portare Oscillazioni in scena e non solo.
Sta per iniziare la 14esima edizione di Teatri di Vetro, come si è svolta l’organizzazione di quest’anno, con le limitazioni dovute all’emergenza sanitaria?
Il festival negli ultimi tre anni ha cambiato impostazione e vede la presenza di diverse sezioni di lavoro. Oscillazioni, l’ultima parte, che si svolgerà al teatro India, è la meta di tutto. Teatri di Vetro è diventato un progetto curatoriale, basato sulla relazione tra la curatela e gli artisti in un arco temporale molto ampio, a volte anche più di un anno. Chiedo agli artisti di poter interrogare insieme a loro la loro creazione artistica, partiamo dai progetti per capire in che modo possono aprirsi ad ulteriori possibilità sceniche, a dispositivi paralleli o a piani sommersi per far riemergere dei residui, delle parti che non sono state sintetizzate nello spettacolo finale. L’obiettivo è di mettere gli spettatori a contatto con la processualità interna alla creazione. In generale presentiamo anche opere finite, se mai un’opera scenica può considerarsi tale. A fianco delle opere finite vengono elaborati con gli artisti altri dispositivi, generati a partire dal medesimo progetto. In un impianto progettuale di questo tipo diventa difficile immaginare una restituzione che non sia in presenza: lo spettatore è invitato a fare esperienza di quel processo artistico, non a esercitare un giudizio su un’opera compiuta. In qualche modo vorremmo che la qualità della relazione tra curatela e artisti comprendesse anche lo spettatore, che è parte integrante dell’atto artistico, anche di fronte al singolo oggetto, al frammento, al work in progress. Quest’anno le discussioni con gli artisti e i processi di produzione con i miei tutoraggi sono stati fatti da remoto. Tutta la parte produttiva, come quella realizzata nei due anni precedenti è quasi completamente saltata, in più gli artisti hanno potuto lavorare molto meno di quanto avevano programmato. A settembre la sezione Trasmissioni a Tuscania è stata una sorta di parentesi, un’edizione molto emozionante, densa di contenuti di alta qualità anche sul piano della discussione, con una settimana di lavoro con le classi di allievi. Negli ultimi due giorni è stato aperto il piano pre-performativo del lavoro con gli allievi e infine c’è stata la presentazione del piano performativo ad opera dell’artista in prima persona. Questo in presenza di una serie di personalità: teorici, artisti, studiosi, che invito ogni anno a partecipare, oltre al pubblico, a una tavola rotonda per parlare di ciò che si è osservato. Quest’anno è nato anche il primo progetto editoriale, una fanzine che vorremmo portare avanti per lasciare una traccia materiale in un anno così pieno di virtualità. Teatri di Vetro ha il contributo del ministero, siamo uno dei festival finanziati dal Fus e il ministero quest’anno ha lasciato ampia libertà di poter realizzare quel che si poteva, senza mettere paletti, mandando in deroga una serie di regole. Abbiamo anche il contributo della Regione Lazio e del Comune che non avremmo ottenuto nel caso in cui avessimo deciso di fermarci. Per garantire il cachet agli artisti ho cominciato a ragionare con loro e abbiamo costruito un piano di produzione completamente inedito. Ho diviso i lavori tra work in progress, primi studi e lavori che avevano ancora molta strada da fare e ho chiesto agli artisti di lavorare a degli elaborati digitali, senza riprendere il totale di un work in progress, ma di elaborare in alcuni casi una sorta di diario di viaggio, o in altri casi degli appunti in stretto dialogo con il video e l’intervento di un video maker. Per esempio, è il caso del lavoro che si sta svolgendo a Ostia Lido, la residenza legata a Composizioni. Daniele Spanò ha affiancato i lavori ed effettuato delle riprese e adesso lavorerà a una sintesi di quanto è successo in cinque giorni di residenza. I lavori che avevano una natura più strutturata, che avevano bisogno di un allestimento vero e proprio o che non avevano altra possibilità sono stati collocati in questo set che diventerà il teatro India dal 15 al 21 dicembre. Abbiamo scelto di farci affiancare da professionisti che possano aiutarci a partire da ciò che può essere il lavoro con lo spettatore e trovare la soluzione in video. Non faremo post produzione perché gireremo e manderemo online 14 lavori, è impensabile pensare di montarli, tuttavia faremo una regia video live e ci prenderemo un tempo più lungo per capire come riprendere ogni singolo lavoro. Ho dialogato molto con gli artisti e con Michele Cinque, un regista di cinema che con il suo team verrà a riprendere i lavori, in modo tale da capire, per ogni singolo spettacolo, quali potrebbero essere non solo le inquadrature o le prospettive, ma anche le modalità. Avremo una telecamera per lo spazio interno, una steadicam e quattro telecamere fisse messe in diversi punti dello spazio, in modo da non restituire la sola frontalità, che poi a teatro non c’è. Lo spettatore non vede una sola prospettiva, soprattutto nei lavori di Teatri di Vetro. La percezione del pubblico altera la frontalità perché l’occhio va e sceglie; nello stesso tempo la drammaturgia del lavoro dialoga con quest’occhio che guarda, e cercheremo di portare tutto questo movimento in video quanto più possibile. Uno degli elementi che ho discusso con Michele Cinque riguarda il ritmo: mentre il ritmo della percezione live ha la sua velocità, nel mezzo video non si salvaguarda con la sola azione, quindi si deve interpretare attraverso l’occhio delle telecamere. Dopo aver capito come procedere diventa una sfida interessante. L’unico grande problema è la mancanza di tempo.
Gli eventi sono tutti gratuiti, avevate pensato a un biglietto che potesse aiutarvi a sostenere le spese?
In realtà abbiamo fatto una campagna di crowdfunding invece di far pagare un biglietto. YouTube sarà la piattaforma, ma anche la pagina facebook per avere più visualizzazioni possibili.
Le performance rimarranno disponibili online?
No, perché volevano salvaguardare l’idea che fosse un festival, poi non è escluso che successivamente verranno resi ancora visibili, ma prima vediamo quello che succede.
Gli artisti coinvolti sono tanti, come è stato per loro passare a questa modalità video?
Gli artisti sono molto diversi tra di loro, alcuni hanno familiarità con il video, altri no, e ci sono ancora preoccupazioni da parte di coloro che basano la propria performance sulla relazione mossi dalla presenza fisica degli spettatori. Altri invece sono preoccupati per una questione di pudore, in particolare un’artista che lavora sul nudo. Credo che questa esperienza fornirà probabilmente delle possibilità espressive ulteriori anche nelle prossime edizioni, magari sarà una modalità di narrazione parallela che riusciremo a mantenere o a incrementare.
Quando sono state contattate le compagnie?
Da oltre un anno, perché per attivare il lavoro di decostruzione serve un tempo lungo. Alcuni lavori sono stati rivisti per portarli a debutto. Per esempio Paola Bianchi avrebbe dovuto debuttare con “OtherNess” a Santarcangelo, una coproduzione nostra con PinDoc e poi qui al festival, ma non è mai nato perché non c’è stato il tempo materiale di realizzarlo; invece ha lavorato su un nucleo che si chiama “O_N”. Abbiamo fatto con lei residenze da remoto, poi è venuta a Tuscania e abbiamo lavorato ancora: alla fine abbiamo portato a casa quasi l’interezza del lavoro che avevamo previsto a gennaio. Gli artisti erano questi, l’articolazione dei loro progetti è rimasta più o meno analoga, quello che è cambiato è la modalità: per alcuni saranno visibili elaborati performativi digitali – video o diari – e per altri un video con un’ottica diversa. È comunque l’artista a prendere le sue strade. Ad esempio “Deep end” di Chiara Frigo sarebbe stata una sorta di installazione che gli spettatori avrebbero potuto visitare a piccoli gruppi per un tempo breve, ma il passaggio al video ha portato Chiara a decidere che “Deep end” diventerà un film. Per ora vedremo un primo elaborato di 15 minuti tratto dal racconto “Il nuotatore” di Cheever. Chiara per un primo studio ha cominciato a girare diverse piscine, prima nel viterbese e poi in Veneto, perché nel racconto il protagonista attraversa tutte le piscine della contea per tornare a casa. Con lo spostamento della richiesta in video c’è stata la modifica di questo lavoro. Se riusciremo, proveremo a riprendere il backstage e guardare tutto lateralmente con uno sguardo dalla quinta e non dalla frontalità.
Per le sezioni Composizioni e Elettrosuoni come è andata?
Composizioni è a Ostia al teatro del Lido e negli ultimi tre anni questa sezione prevede il rapporto con i cittadini. È un territorio molto particolare, anche noto alla cronaca, e abbiamo sempre portato progetti di artisti che vedevano gli spettatori come parte integrante. Non potendo coinvolgere nessuno, quest’anno abbiamo indetto una call per un team di tre giovani coreografi, in modo che Composizioni potesse essere letto in un’altra prospettiva, mettendo tre linguaggi a confronto sulle metodologie, che componessero uno spazio scenico unitario a partire dallo scambio e dall’osservazione reciproca. Questa nostra risposta all’impossibilità di coinvolgere i cittadini sta dando degli elementi abbastanza interessanti perché pone la questione di quanto siano ferree le regole di ciascuno nel momento in cui si entra in sala e si passa in un campo di applicazione. Cosa si porta e cosa legge l’altro di te nel momento in cui si scambia una pratica di lavoro? Cosa emerge se si consegnano a un altro coreografo le proprie modalità espressive? Daniele Spanò farà una sorta di diario di lavoro, è stato ripreso tutto e al termine del festival lo guarderemo e ci rifletteremo sopra. In Elettrosuoni mi avvalgo dell’affiancamento curatoriale di Enea Tomei. Le scelte non sono state le mie in prima battuta, ma anche in questo caso abbiamo fatto una call. Da un paio d’anni Elettrosuoni è diventato Elettr@ e sta indagando il femminile, ovvero la musica elettronica ed elettroacustica a sensibilità e firma femminile, non soltanto esclusivamente di artiste donne. È stato un ambito interessante per la liquidità, c’è una serie di artisti che entra ed esce da ambiti disciplinari, in questo caso Salvatore Insana, che è presente anche in Oscillazioni. L’interesse è volto, anche per la musica, verso un impianto drammaturgico con l’uso della parola, del video, della narrazione fisica.
Un’ultima domanda: da dove viene il nome Teatri di Vetro?
Il primo anno di Teatro di Vetro è stato il 2007. L’anno prima, quando abbiamo iniziato a immaginare questo progetto dovevo trovare un titolo velocemente e digitando sul cellulare la parola teatro il T9 l’ha corretta in “vetro”. Ho capito subito che Teatri di Vetro era perfetto perché una delle caratteristiche del vetro è la fragilità, ma anche la trasparenza che si può colorare attraverso i contenuti, oltre al fatto che è resistente nonostante la fragilità. Sono tutti elementi che hanno risuonato rispetto all’ambito artistico verso il quale stavamo guardando.
Roberta Usardi
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