Di a da in con su per tra fra Shakespeare, ovvero l’apologia della regia
“Un classico non può esserti indifferente, ti aiuta a definire te stesso”. Lo scriveva Italo Calvino, e Serena Sinigaglia si è scoperta ad applicarlo, nella propria straordinaria parabola teatrale, al nome che di teatro è, di fatto, un sinonimo: William Shakespeare. L’autore, per antonomasia. Ed è la sua opera per antonomasia quella in cui la giovanissima studentessa della scuola Paolo Grassi sceglie di cimentarsi per la propria prima regia, per il saggio di diploma. Romeo e Giulietta. Un azzardo che dà inizio a un amore. Un salto nel buio che può riuscire soltanto a chi abbia la visione e la profondità di analisi di fare, del testo più consumato dall’uso della storia, qualcosa di nuovo. Che rimanga del tutto fedele al testo, magari, ma sappia immergervisi, farlo proprio, squadernarlo con una lucidità che è solo di chi è nel posto dove il proprio talento lo chiama a stare.
È questo, Di a da in con su per tra fra Shakespeare, andato in scena al Teatro Manzoni. Prima che la storia d’amore tra l’autore degli autori e una delle registe più importanti d’Europa, è la più lucida e illuminante masterclass degli ultimi anni su cosa sia una regia, su come si costruisca passo dopo passo e su cosa possa (o debba) offrire a ciò che mette in scena l’apporto di un regista che si dica realmente tale. Tra pile di appunti che sembrano congelati nell’istante in cui prendono il volo, nel momento in cui tra la fatica e l’elevazione c’è la magia del teatro, l’ora e mezza di spettacolo affascina, per merito della grazia di Serena Sinigaglia che si sperimenta in scena, senza fingersi ciò che non è e senza porre cattedre tra sé e il pubblico. Condividendosi, svelandosi, con eleganza e pudore, anche nelle intime fragilità che ne guidano il lavoro, ripercorrendo il Lear nel quale, adulta, specchia e chiude il cerchio nell’omaggio a un padre cui non ha potuto crescere accanto. Frammenti di vita e di riferimenti culturali (su tutti, “Tutto su mia madre”) tenuti insieme con l’apporto di Mattia Fabris e Arianna Scommegna, compagni di strada fin da quel primo giorno e fino a oggi, nella compagnia Atir nata dopo quel primo Shakespeare e che questa stagione forzatamente on the road ha portato in tutti i teatri milanesi per chiudere proprio col Manzoni.
Contribuisce forse la familiarità, accanto al talento, a consentirgli di essere interpreti impeccabili delle idee di Sinigaglia nei brevi e sfolgoranti esempi che trovano spazio in questo racconto, ma anche incarnazione – sotto la cui ironica freschezza c’è la verità dei ragazzi d’allora – dei rovelli della giovane Serena che cerca se stessa, nell’età in cui si costruisce il proprio posto nel mondo, ma in cui la capacità di vedere comincia a manifestarsi. In cui comincia a capire quali sono le domande da porsi per fare dei limiti del teatro le sue potenzialità, sfrondando di tutto il superfluo di cui Shakespeare più di altri è stato caricato, dal compiacimento polveroso con cui le sue parole sono state tradotte. Sinigaglia, invece, lavora di sottrazione e di verità, a partire dal potere dell’immaginazione su cui proprio Shakespeare, nella sua spasmodica ricerca di benevolenza del pubblico, pone l’attenzione. Cos’è fondamentale per la scena? Cosa davvero anima, tra le righe, Romeo e Giulietta quando per la prima volta si scoprono innamorati con la foga della prima adolescenza, o il rapporto fra Lear e Cordelia in cui Sinigaglia riconosce una se stessa quattordicenne?
Solo conoscendo la risposta con la precisione che Serena Sinigaglia dimostra di avere si può scoprire la verità delle parole di Calvino, la prossimità di Shakespeare con la vita quotidiana del presente, la lontananza della scena del balcone dallo stucchevole idillio d’amore, lo strazio di Lear sotto la rudezza.
Ne emerge uno spettacolo illuminante per chi si voglia accostare al teatro e al suo farsi, da cui cogliere una preziosa messe di segreti del mestiere, suggestioni, e una fascinazione difficilmente esprimibile per chi – ed è questo il compito dei grandi registi – sa che “lavorando sulle relazioni si possono smascherare bugie latenti, e scoprire verità impreviste”.
Chiara Palumbo