Vittore Bocchetta, l’uomo e la memoria
“L’ultima voce”
Ci ha lasciati poche settimane fa Vittore Bocchetta. Ci ha lasciati a 102 anni, dopo aver vissuto veramente tante e tante vite, “ma avremmo voluto che rimanesse qui per sempre”, sono le parole di uno dei sui nipoti da un articolo su L’Arena. E oggi questo libro di Giuliana Adamo “L’ultima voce. Vittore Bocchetta: ribelle, antifascista, deportato, esule, artista” (2020, pp. 240, euro 18.50), edito da Castelvecchi, è per noi una grandissima testimonianza storico-letteraria, umana e artistica. Con una penna magistrale l’autrice scrive della vita di Bocchetta in modo nitido e scorrevole, mai autobiografia si legge così d’un fiato perché, anche se si sa che Bocchetta è sopravvissuto ai campi di concentramento, mentre le pagine scorrono ci si domanda in continuazione, come e quando, come e quando arriverà la salvezza da quell’inferno?
Chi è Vittore Bocchetta?
Vittore Bocchetta nasce in Sardegna, a Sassari, nel 1918. Presto orfano di padre e in contrasto con la madre, lascerà definitivamente la casa materna a diciott’anni e l’anno successivo – e in solitaria – l’isola per l’obbligo militare, con destinazione Verona. Sarà questa la sua città d’accoglienza prima e dopo la guerra; la lascerà per tornarvi adulto e rimanerci poi per sempre.
Sin dall’adolescenza ha un carattere fermo, tenace e ribelle, qualità che lo accompagneranno per tutta la vita e che molte volte, la vita, gliela salveranno. Il 1940 lo trova povero e senza famiglia in una Verona che riceve i primi bombardamenti della seconda guerra mondiale. Bocchetta senza perdersi d’animo fonderà la prima delle sue scuole e continuerà a diffondere le sue idee libertarie, cosa che non passa indifferente sotto gli occhi dei fascisti e che lo porteranno a più di un arresto senza giustificato motivo, ma solo per non essersi iscritto ad alcuna organizzazione del regime.
“Sono libero. Libero? Sì, libero di essere giovane, libero di rischiare ancora la mia libertà”.
Appartenente al CLN di Verona e tra i primi giovani ribelli, d’ora in poi cominceranno i suoi primi tragici incontri e ricordi, con la cruda realtà che stava per fagocitare non solo l’Italia, ma il mondo intero. È il 5 luglio del 1944, giorno in cui si consegnerà al nemico per riscattare la vita di due donne, la sua fidanzata dell’epoca e la madre della ragazza: è in questo momento che ha inizio il calvario che, negli anni a venire, lo vedranno vittima dell’orrore dei campi di Flossenbürg (KZ21631) prima e di Hersbruk (ottobre 1944) poi.
“La vita non mi ha viziato. Mi sono ritrovato in varie parti del mondo a dover sopravvivere come docente, scultore, pittore. Ho avuto alti e bassi, ma le cose più terribili della mia vita le ho vissute a Hersbruk”.
È impossibile descrivere la fame, la solitudine e la disperazione di quei momenti e, per noi, credo sia impossibile anche lontanamente immaginarli. Questi momenti torneranno attraverso le memorie e la produzione artistica di Vittore Bocchetta che per fortuna, forza o volontà riuscì a non morire tante volte (grazie ad altri uomini coraggiosi come lui, ricordiamo tra tutti Teresio Olivelli, beatificato nel 2018), anche quando la morte gli soffiava fiato sul quel corpo ormai sfinito e stremato dalla sua ultima fuga.
Il ritorno a casa
Il rientro a Verona sarà deludente e amaro, la città non accoglierà Vittore Bocchetta come dovuto; quindi, tra stenti, fraintendimenti e delusioni opterà per l’esilio nel Sud America a bordo dell’Olimpia all’età di trent’anni. Nemmeno la nuova avventura gli riserverà fortuna da subito, perché la sua laurea in filosofia – conseguita a Firenze nel 1944 – non sarà qui riconosciuta e lo allontanerà momentaneamente dal suo desiderio di insegnare; fino al 1958 e al suo arrivo a Chicago dove conseguirà un master in Lingue e letterature romanze che lo reintegrerà a pieno titolo nel sistema accademico americano. Ed è qui che la sua arte, tra scultura e murales prenderà piede. È solo poco prima degli anni ’90 che Bocchetta, con tre matrimoni alle spalle, penserà seriamente al suo rientro a Verona, dove comincerà a raccontare ai più giovani, nelle scuole, la sua storia e a seminare la sua memoria, per non dimenticare. Quella memoria che ritroviamo nei suoi scritti (ricordiamo Quinquennio infame, 1995), nelle sue opere (ricordiamo Ohne Namen, 2010), in quei luoghi “dell’antica pena” e in questo esaustivo volume, per cui ringraziamo immensamente Giuliana Adamo e Castelvecchi, pubblicato pochi mesi prima della sua scomparsa, a memoria di una lunga e significativa esistenza.
Marianna Zito