Vanbasten risponde a qualche domanda: la borghesia, l’empatia, e altre cose
Vanbasten mi risponde al secondo squillo. Bella voce: giovane, sexy, divertente; non solo quando canta, anche quando parla. Ci diamo del tu? Ci diamo del tu.
D.M.A. – Posso chiamarti Carlo Alberto o preferisci Vanbasten?
C.A.M. / V.B. – Carlo va benissimo.
D.M.A. – Ci dai qualche dritta biografica, Carlo? Perché online non si trova granché e chiaramente tutti noi, nonostante la pruderie autoimposta, amiamo il pettegolezzo. Però è meno disonesto se ci piove addosso dal diretto interessato… Insomma racconta qualcosa di te che ancora non si sa.
C.A.M. – Lasciami pensare… Sono un grande consumatore di THC, dopodiché bisogna considerare che sono tempi difficili per averne anche altri di vizi. Possiamo lasciar trapelare che sono un ghostwriter: scrivo per alcune case editrici e per dei privati. Che altro? Sto con una ragazza. Poi non saprei… sono noioso se non mi viene in mente altro?
D.M.A. – Più semplicemente magari non sei disonesto. Senti, e perché hai smesso di giocare a calcio?
C.A.M. – L’ambiente calcistico è tremendamente maschilista: si sta sempre lì a misurarsi i muscoli… non faceva per me, non mi piaceva, e in alcuni frangenti diventava anche ambiguo. E poi anche se ero in primavera con la Roma, avevo diciotto anni: volevo vivere la mia gioventù, volevo stare con i miei amici, volevo suonare.
D.M.A. – Che scuole hai frequentato?
C.A.M. – Mi sono diplomato al classico, al Giulio Cesare di Roma, e poi mi sono laureato in scienze della comunicazione all’università di Roma Tre.
D.M.A. – Chi cerca di essere qualcosa dalle mie parti vive una contraddizione continua e di solito non ha nemmeno troppo tempo per ascoltarla la musica, figuriamoci per farla. Questa tua frase mi ha molto colpito, perché da qui come dai tuoi testi e dai videoclip emerge una certa frustrazione, un’urgenza di esprimersi. Non si sa bene cosa si vuole dire, ma si sa che c’è qualcosa da dire. Ce la racconti meglio questa situazione?
C.A.M. – È un discorso difficile… io sono a cresciuto in borgata, a Vigne Nuove. E il problema è che delle borgate ne parlano solo i rapper o i trapper, che però enfatizzano soltanto gli aspetti negativi della periferia. E invece la borgata è molto di più, e io vorrei raccontare quel qualcosa in più. Come avrebbero fatto i cantautori del passato, solo che il cantautorato nel frattempo si è imborghesito e quindi davvero, non è rimasto nessuno a descrivere la realtà, che è lontana dal centro della città e che concerne molta più gente.
D.M.A. – Guarda, volevo chiederti cosa pensi della borghesia, ma sei stato sufficientemente chiaro.
C.A.M. – Poi oh, io non ho niente contro i borghesi: ho tanti amici fra i borghesi. Però il fascino per il manierismo è oggettivamente terrificante.
D.M.A. – Condivido. Però non credi che quel tipo di urgenza produca talvolta anche degli artisti presunti e non fattuali? Ovvero, cosa pensi del panorama musicale contemporaneo?
C.A.M. – Sono d’accordo con te: l’aspettativa sugli artisti porta a delle dinamiche complesse e talvolta non si riesce a soddisfare quella parte di pubblico che conta, perché la richiesta non combacia con le proposte. E in generale sì, ci sono troppi fuochi di paglia.
D.M.A. – E tu non hai paura di essere catalogato come uno di questi fuochi fatui?
C.A.M. – Non credo di far parte di quella categoria, perché io mi dedico ad essere e non ad apparire.
D.M.A. – Qual è la tua canzone preferita fra quelle del disco?
C.A.M. – Sparare sempre.
D.M.A. – Perché?
C.A.M. – Tutte le altre sono arrivate perché qualcuno o qualcosa me le ha ispirate. Quella invece è il mio inno: l’ho voluta, l’ho cercata e alla fine è emersa, è nata da sola.
D.M.A. – Perché queste canzoni non sono uscite dieci anni fa? Cos’è successo?
C.A.M. – Per tanti motivi. Nel 2011 c’era Mascara, poi pian piano sono arrivate 16enne, Pallonate, Kenshiro. Le ho scritte tutte lasciando involontariamente una certa distanza temporale fra l’una e l’altra. Poi le ho messe insieme. Mi sono dato il tempo di migliorare, e sono contento che sia andata così.
D.M.A. – Cosa ti ispira quando scrivi?
C.A.M. – Gli amici in difficoltà, le persone che amo e che mi obbligano all’empatia quando soffrono.
D.M.A. – L’ultimo film che hai visto?
C.A.M. – Il castello errante di Howl, che è stupendo.
D.M.A. – Sì, pazzesco. E l’ultimo libro?
C.A.M. – Piccola guerra perfetta, di Elvira Dones.
D.M.A. – Cambiamo argomento, per concludere. Non hai paura in questo periodo? Perché un disco lo si può far uscire ma ormai senza una rete di concerti non si va avanti tanto facilmente… e la pandemia in questo senso ci intralcia non poco.
C.A.M. – Io però non sono un artista con una platea enorme. Non sento l‘esigenza di intrattenere un pubblico durante la quarantena. Sono altri artisti, più noti, che dovrebbero fare di necessità virtù e trovare il modo per rimanere vicini al pubblico. Io appartengo ad un sottobosco di persone che devono aspettare e farsi trovare pronti e migliori quando si potrà tornare ad uscire di casa.
Davide Maria Azzarello
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