“VAL LA PENA ESSER SOLO … ?” – VISITE al TEATRO FRANCO PARENTI DI MILANO
«Bussarono a mille porte, cercando un luogo
per riposare, e mille porte si chiusero. Una soltanto li accolse,
piccola, con un tetto di paglia e di canne:
là vive Bauci, una pia vecchietta, e il suo coetaneo Filemone;
uniti dagli anni della giovinezza, invecchiarono
in quella capanna e, ammettendo la propria miseria
e sopportandola di buon animo, la alleggerivano.»
(Ovidio, Metamorfosi, VIII, 628-634)
Nasce da due riferimenti letterari “Visite”, il nuovo spettacolo della giovane compagnia “Teatro dei Gordi”, che ha debuttato lo scorso 20 novembre al Teatro Franco Parenti (anche co-produttore). Uno citato in scena, Lavorare stanca di Cesare Pavese – unico momento estesamente dedicato alla parola – e l’altro taciuto ma ben vivo nel cuore del racconto scenico, il mito di Filemone e Bauci, riportato da Ovidio nelle sue Metamorfosi. Entrambi sorreggono la riflessione sulla vita e sulla condizione umana, un filo teso tra la solitudine e la comunanza di affetti, legami che si sperano eterni. Il protagonista di Pavese anela ad un incontro, la coppia di anziani apre la porta della propria casa alla visita di due sconosciuti (in realtà Zeus ed Hermes) e il gesto salderà ancora di più il loro amore. Non dei, Filemone e Bauci, ma un uomo e una donna così semplici da desiderare solo una cosa, quella di poter morire insieme.
Così Visite racconta una vita semplice, ordinaria, di due ragazzi poi adulti e anziani, puntellata di gesti di dolcezza che ritornano come una costante, momenti di gioia ma anche di dolore, attimi di incertezza, ma che uniscono invece di dividere. E poi visite, visite degli amici di sempre, compleanni, feste, capodanni, visite che passano sempre per la camera da letto, cuore intimo della casa che si apre alla quotidianità e agli sguardi (degli amici, del pubblico). Perché è sul letto di casa che facciamo posare i soprabiti quando le visite bussano alla porta. Ad essere stra-ordinaria è la forma teatrale che prende questa storia semplice (affidata alla regia di Riccardo Pippa e alla drammaturgia di Giulia Tollis). Una narrazione performativa in cui alla parola è lasciata una funzione di interiezione, una forma di sintesi e astrazione di gesti rituali, che diventano ossatura di quadri scenici e musicali in cui la vita scorre, e le sue fasi si avvicendano, ora al ritmo frenetico della giovinezza, ora a quello più lento della vecchiaia. Niente di eccezionale, è nella rassicurante ripetizione della routine – sequenza di azioni performate regolarmente – che irrompono le cesure e i cambiamenti.
Sessanta minuti per il montaggio di una vita intera. Se ogni età era passata per rapide e continue metamorfosi di vestiti, la vecchiaia in scena ha i tratti delle maschere di cartapesta realizzate dalla stessa costumista, Ilaria Ariemme. Opere d’arte a sè stanti, che danno allo spettacolo il sapore della tradizione più antica e alta del teatro. Maschere buffe e spiazzanti, tragiche e comiche insieme, cinque personaggi alla fine, quando l’ultimo quadro, su note di musica classica, ci porta d’improvviso dalla piccola camera da letto al sorprendente teatro della vecchiaia che è il corridoio di una casa di cura per anziani; la Sala 3 del Franco Parenti, in questo senso, è stata raramente (a parere di chi scrive) sfruttata in maniera così efficace in tutta la sua profondità; grazie alla scenografa Anna Maddalena Cingi, lo spettacolo abita letteralmente la sala. L’intensità del legame tra i due sposi passa nella loro poetica maschera di anziani. La levità di uomini e donne tornati bambini, chiude, con speranza ma anche malinconia, questa parabola scenica disarmante per semplicità di contenuti e articolazione di particolari e interpretazioni.
Il gruppo di attori e attrici, composto da Cecilia Campani, Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti, Maria Vittoria Scarlattei, Matteo Vitanza,sostiene come un’affiatatissima corale la partitura mimica di gesti e il disegno emotivo di ciascun personaggio. E una volta diventati maschera, ancor di più il corpo vince la sfida di farsi espressione per un volto che, inevitabilmente, non può assumerne altre se non quella scolpita.
Mariangela Berardi
(La citazione del titolo è tratta da Lavorare stanca di Cesare Pavese)