“Tiresias”, ovvero il coraggio di restare se stessi fino in fondo
“Immaginate la scena:/ un quindicenne con i soliti sogni/ e la solita routine./ Va a scuola con dentro un’apatia/ derivante da desideri insoddisfatti./ Soffoca oppure sta imparando/ solo come va il mondo?”
Inizia così “Tiresias”, spettacolo della Compagnia Bluemotion, andato in scena al Teatro India di Roma dal 19 al 21 novembre, tratto dal poemetto “Hold your own, Resta te stessa” della rapper londinese Kate Tempest, con traduzione di Riccardo Duranti e regia di Giorgina Pi.
Nell’opera, più che una provocazione fine a stessa, ritroviamo i fervidi toni di denuncia verso un contemporaneo lacerato, inghiottito dalla barbarie del capitalismo, incerto, a tratti opaco, con cui noi, protagonisti smarriti di una “Waste Land”, facciamo i conti ogni giorno. L’atmosfera sul palco è riscaldata dalla luce e dai bagliori dei fari disposti a terra in semicerchio che raccolgono il performer (un impeccabile Gabriele Portoghese) attorno a una postazione da dj, affollata da microfoni e svariati dischi di musica rap, soul, a cui si aggiungono le musiche di Bob Dylan e dei Led Zeppelin. Abbiamo davanti un Tiresia moderno, dalle sembianze di ragazzino timido, figlio di una cultura costruita sulle leggende del pop, e fragile al tempo stesso, che indossa una felpa con il cappuccio, degli occhiali scuri e una maglia con una curiosa scritta in greco: danzeremo. E sembrano danzare davvero le sue parole, ora accompagnate da anelli di fumo di sigaretta, ora più frenetiche e veementi, in una drammaturgia che è simultaneità, trasformazione, intuizione affilata. Nella voce fuori dal coro, pastosa ed esplosiva di Portoghese, si condensa quella di una generazione divisa tra ambizioni e sogni infranti. Prendendo spunto dal mito dell’indovino cieco, e restando pur sempre fedele al pensiero della giovane esponente della “Spoken Word Poetry”, quello portato in scena è un appassionante racconto che si muove tra gli opposti. Mentre cammina una mattina nella foresta, un giovane uomo intralcia due serpenti che si avvinghiano l’uno con l’altro, e per questo la dea Hera lo punisce, trasformandolo in una donna. Già nel riconoscere il sesso di un serpente, si cela il mistero della conoscenza e la sua complessità. Prende da qui avvio una storia ripartita in quattro quadri successivi che attraversa l’infanzia, la maturità dell’uomo, la maturità una volta che è stato tramutato in donna, e, infine, l’esperienza da profeta senza vista. Metamorfosi, queste, narrate in un linguaggio veloce e colloquiale che arriva a tutti. In ciò si ravvisa la felice continuità del mito, riletto e consumato dal contemporaneo. Non a caso l’enigmatica figura mitologica di Tiresia, paragonabile per certi versi a quella della Sfinge, è stata fonte di ispirazione, in passato, per grandi autori classici (Sofocle, Omero, Ovidio, Dante), così come della contemporaneità, (Apollinaire, T.S. Eliot Pasolini, fino a una recente scrittura di Andrea Camilleri). Tiresia sa unire il misterioso tema dell’origine insieme alla veggenza del non ancora. Fa paura ascoltarlo, il suo corpo conturba, è al di fuori dell’ordine naturale, lontano dalla retorica del potere, e con le sue vizze mammelle – per dirla con Eliot – vive in mezzo alle piccole cose. Ed è proprio il suo destino di mutante a concedere spunti di riflessione sul passaggio dell’età, sia dell’identità maschile e femminile, a considerare ancora i sentimenti di un vero e proprio transito sessuale con “corpi che sfogano la propria vita/ nel pulsare della strada”.
La lungimiranza di Tiresia va oltre quella dello schermo che ci costruiamo on-line e fissiamo sui nostri telefonini, le nuove divinità che ci tengono in scacco, ci riprendono a colori e in alta definizione, misurano la qualità dei nostri istanti a colpi di like, sobillano le nostre menti alla superficialità, distogliendoci dalle questioni rilevanti, un esempio fra tutti l’affossamento del ddl Zan, che fa vacillare ancora oggi l’idea di pluralismo, ossia la possibilità per tutti i soggetti esistenti di essere giuridicamente e socialmente riconosciuti. E ancora il consumismo compulsivo, la catastrofe climatica. Vedere realmente come stanno le cose fa male, eppure Tiresia, “cornacchia un po’ spennata, ha ancora il fiato per dirci la verità”. È restato se stesso, in ogni se stesso che è stato, povero, vecchio, vagabonda, sporco, trans, in mezzo alle circostanze, in mezzo alla folla, luminoso e terrificante, coraggioso in ogni imprevisto. È un po’ questo il senso che si evince da tutto lo spettacolo, un inno alla libertà e al risveglio delle coscienze per rinsavire dalla nostra cecità interiore, tornare ad apprezzarci nell’incontro con l’altro, riscoprire e accettare la bellezza di essere, così semplicemente, senza filtri e senza troppe retoriche.
Diana Morea