Torino: la Piccola Compagnia della Magnolia ripropone Zelda Fitzgerald al Cubo Teatro
… e stavo facendo l’amore con Francis, come fosse la prima volta. Oh, Cristo santo, Francis! Siamo famosi… Zelda Sayre e Francis Scott Fitzgerald: l’archetipo di ciò che vuole New York… fanno il matrimonio dell’anno, lui venda trentamila copie con “Di qua dal paradiso”, viaggiano sui tetti dei taxi, vivono negli alberghi più lussuosi, girano in Marmont sport coupé… Charlie Chaplin indossa un soprabito giallo a doppio petto: la gente è stanca del proletariato! Sono tutti famosi… è il chiacchiericcio del jazz.
Accade che, nonostante tutti i crismi del momento, si riesca ancora ad organizzare delle rassegne teatrali ben più che dignitose. È il caso di RE – PLAY, la mezza stagione di Fertili Terreni che anche quest’anno si riconferma una realtà di nicchia ma estremamente accattivante. Siamo da Cubo Teatro, lo spazio ricavato da un’ansa di Off Topic, in via Pallavicino, zona Campus Einaudi. Qui, il primo spettacolo di quest’anno, in scena dal 14 al 16 ottobre per un totale di ben sei repliche, è stato “Vita e morte di Zelda Fitzgerald”, una splendida creazione del 2014, quindi già collaudata ma comunque sempre affascinante, avvincente, rincuorante. I genitori di questa sensazionale Zelda sono Davide Giglio e Giorgia Cerruti della Piccola Compagnia della Magnolia, che dal 2004 propone una rigorosa e appassionata indagine a cavallo tra codici teatrali e ricerca, spaziando cioè tra i classici più assodati e il contemporaneo più audace.
Zelda Sayre, diciamolo subito, è un personaggio da conoscere. Una di quelle biografie che confortano, che rinfrancano, che incoraggiano. Nativa dell’Alabama, viene al mondo il 24 luglio del 1900, ultima di cinque figli di un magistrato imbevuto d’araldica coloniale. Capofila delle flappers, ballerina indomita, giovane provocatrice, donna disallineata, divergente, agitatrice: iconoclasta di un ordine naturale che voleva le donne del sud remissive, docili, sottomesse. Contrappasso dissacratore di quel patriarcato che solo ora, dopo più di un secolo, comincia ad essere scalfito. E chi poteva prenderla in carico? Per gestirla, in un complesso rapporto di coordinazione fra titani, il fato propose Francis Scott Fitzgerald: famigerato autore di un’epoca definita a più riprese come ruggente. Prevedibilmente, l’intesa fra i due supera le ordinarie unioni dei mortali: si incontrano al Country Club di Montgomery, la città di Zelda, quando lei aveva diciott’anni e lui appena quattro di più. Deflagrazione atomica: lei s’insinua con prepotenza in molti personaggi dei romanzi di lui, la corrispondenza durante la guerra, l’anello mandato via posta, gli intralci delle famiglie, poi il matrimonio nella cattedrale di San Patrizio a New York, e insieme la consacrazione alla grande leggenda della bellissima coppia, eroina, simbolo e interprete di tutte le prodezze sofisticate dell’età del jazz, come scrisse Fernanda Pivano in Pagine Americane (Frassinelli, 2005). E dunque tutto ciò che ne consegue: l’amore, quello disinibito e folle, puro e pauroso, che sfocia nell’ossessione e nel disinteresse per i disordini morali, ché tanto quella è solo la nostra vera natura. Scandalo per i vecchi, ispirazione per i giovani: la sobrietà sempre schivata quasi con compassione per chi invece la praticava. Così demodé, la moderazione delle opinioni, dei costumi, dei discorsi. Poi la figlia, che ci si augura bella e sciocca, poi la sregolatezza più abissale: le feste, l’alcol, gli indebitamenti, i romanzi mediocri, il trasferimento a Parigi, le pratiche per un divorzio mai concluso, le vacanze in Italia, qualche farmaco di troppo, il presunto omoerotismo fra Francis ed Hemingway; il tutto fagocitato in un eterno rigurgito di charleston. Poi gli esaurimenti nervosi, le cliniche a Parigi, in Svizzera, il ritorno in Alabama, il ricovero per schizofrenia, la pittura, l’enigma della morte.
In regia, c’è Giglio. In scena, su un capezzale d’oro ormai opaco, c’è Giorgia Cerruti: capacissima, drammaticamente integerrima, disposta a dei compromessi d’immedesimazione che vanno ben oltre il governo della lacrima e che si percepiscono nelle iridi, sulla curva della bocca, nei gesti delle falangi e sulle unghie. La Zelda di Giorgia accoglie gli spettatori con gentilezza, e, senza mai alzarsi dal letto della clinica dov’è ricoverata, si abbandona al soliloquio liberatorio che districa quasi per risolversi, per chiarirsi con sé stessa, per slegarsi da un’esistenza aggrovigliata di quei viluppi esistenziali che sbocciano con la libertà più assoluta. Zelda è diventata matta, non c’è dubbio: discute con Cristo, Guglielmo il Conquistatore, Maria Stuarda, Apollo. Parla col dottore, poi con suo marito, che però è morto otto anni prima. Ora si sveglia dopo l’ennesima festa: …guarda qui: bottiglie rotte, l’odore del vino ha appestato i divani… lo avevo filtrato con la sottoveste di seta… poetico, non trovi? Poi ricorda suo padre, il Giudice, poi ci spiega che lei deve ballare, altrimenti muore. Tornano spesso le rose, nel naso del pubblico grazie ad un diffusore fra i posti a sedere: il profumo di Gesù, la corona che gli impiegati del campidoglio mandano alla morte del Giudice… poi il denaro: Grazie dei soldi che mi dai. Ho già predisposto come spenderli. Mi comprerò un abito maschile presentabile nel caso l’edificio andasse a fuoco e mi toccasse aiutare a manovrare la manichetta antincendio. Un incendio che effettivamente divamperà, e che porterà via Zelda assieme agli altri degenti. E ci sarebbe molto altro da dire, da citare: il testo – che incrocia Save me the Waltz e i carteggi fra i due sposi – è semplicemente encomiabile, perché agguanta e impugna l’immaginario degli anni Venti senza edulcorarlo e superando così l’artificio psichedelico alla Baz Luhrmann. Dunque non ci rimane che sperare nel ritorno cadenzato di questo spettacolo sui palchi delle nostre città.
Davide Maria Azzarello