Un Cantico per voce e corpo, fino all’ultimo respiro
“Tienimi”. È l’invito che continua a risuonarmi nella testa, a distanza di una settimana, dopo aver visto sabato 21 maggio il “Cantico dei Cantici” della Compagnia Fortebraccio, a chiusura di una ben curata stagione teatrale organizzata da Carrozzerie N.O.T.
All’invito segue l’immagine di un uomo, quasi allo stremo della sua preghiera d’amore, che madido di sudore, sfinito, dopo essersi affiancato al muro della parete di fondo, ne lascia la sua impronta.“Tienimi”, grida Latini, all’apice dell’implorazione, come sigillo sul cuore, con le mani vuote dopo aver donato tutto ciò di cui si è capaci, perché l’occasione è quella del non detenere niente, di stare in un atteggiamento che ha a che fare con il prepararsi all’appuntamento teatrale. L’artista che entra in contatto con il sentimento della perdita cade e si rialza. E la ricerca del proprio sentire scenico diventa il fine, non un mezzo. Attraversare, dunque, è la condizione. Avvolto da una lunga marsina violacea, grandi cuffie nere, trucco ben evidente su occhi e labbra, Latini guadagna la scena sulle note dei Placebo (Every you, Every me) e si avvicina alla cabina radiofonica di un’immaginaria trasmissione, illuminata dall’insegna ‘On Air’. Non esistono costumi che tengano per chi sa vestire la propria voce. Così, quando questo stravagante clochard dal magnetismo impressionante, indossa le cuffie, grazie ad un marchingegno acustico, il volume rimbomba con una potenza elettrizzante e, in un attimo, la voce si fa respiro suonato, articolazione del suono, modulazione guidata con grande rigore musicale; abbiamo di fronte a noi contezza di un corpo “altro” che danza nello spazio, disegnando la propria storia. I silenzi, le pause, si alternano, entrano nel microfono, si fondono all’unisono. Latini ricama un canto d’amore sublime e disperato al tempo stesso, un idillio rarefatto e drammatico dalla bellezza dilaniante, che imparadisa la mente. Non trattiene le parole, per poterle dire, ma ci cammina accanto, assecondandone le temperature, dando vita ad un inno che trascende il terreno, una lode all’amore universale che contempla aiuole profumate, pascoli tra i gigli, cime d’erbe odorose che partoriscono frutti succosi. Siamo trasportati fuori da qualsiasi concetto, nella gioia di un’estinzione dal discorso che non ha luogo e non ha tempo, rapiti da questa presenza androgina che arsa dal desiderio erotico, tra passione e candore, alza la cornetta di un vecchio telefono che non dà risposte. Condividiamo la sua pena, lo seguiamo con lo sguardo, anche se ci scongiura di non farlo, attoniti, trattenendo il fiato, fino a quando a prendere il sopravvento è la soave voce della Deborah di “C’era una volta in America”: ”Il mio diletto è candido e rosato, le sue guance sono oro sopraffino, il suo collo è uno stelo soavissimo anche se non se lo lava dalla Pasqua passata. I suoi occhi sono occhi di colomba, il suo corpo risplendente avorio e le sue gambe sono due colonne di marmi in calzoni così luridi che stanno in piedi da soli. Egli è tutta una delizia, ma sarà sempre un teppista da due soldi, perciò non sarà mai il mio diletto … che peccato!”.
Mentre le musiche e i suoni di Gianluca Misiti fanno da prezioso contrappunto ad un testo che è balsamo per il corpo e per lo spirito, le luci di Max Mugnai contribuiscono a dare volume e profondità di campo attraverso il preciso uso dei tagli, esaltando i movimenti scenici dell’attore, che sul finire riconquista i microfoni fino a toccare altezze notevoli. Un’estasi della parola, vertiginosa e incalzante, che proviene da dentro, da quel femminile che seduce per il suo stesso desiderio di andare via, altrove, perché non è mai là dove pensa di essere. Attribuito al re Salomone, celebre per la sua saggezza, per i suoi canti e anche per i suoi amori, il Cantico dei Cantici è stato composto non prima del IV secolo a.C. ed è uno degli ultimi testi accolti nel canone della Bibbia. A Roberto va riconosciuto il merito di aver riscritto con il corpo e con la voce un’opera di grande poesia, sottoponendola ad un’autentica voragine di senso, o perlomeno il senso puramente sacro, e donandola ai presenti come musica amplificata per gli occhi, fino all’ultimo respiro, quello in cui il mio e il tuo si ricongiunge in noi.
Diana Morea
Fotografia di Angelo Maggio