Teche, vetrine e bianco e nero: L’adattamento di Leonardo Lidi in scena al Gobetti
È una regia geniale quella di Leonardo Lidi nel proprio adattamento de “La casa di Bernarda Alba”, il grande classico di Federico García Lorca, andato in scena dal 14 al 30 settembre al Teatro Gobetti di Torino. Una tragedia familiare che accoltella gli spettatori con le proprie trame: un velo di Maya schopenhaueriano che lentamente allontana da una vita di verità nascoste e mostra il nudo divario tra “la vita come appare” e “la cosa in sé”. E Lidi lo rende con gelida immediatezza, attraverso i sorrisi spezzati delle donne sul palco, alienate, costrette, in gabbia, senza uscita.
Otto personaggi su un palco evidenziato da una teca, scelta dallo scenografo Nicolas Bovey, che porta a ragionamenti di diversa natura. Quella famosa “quarta parete” pirandelliana non viene sfondata, ma utilizzata come strumento voyeristico. Lo spettatore è obbligato a svolgere il proprio ruolo, dal latino spectare “guardare”: osservare il dramma di una famiglia distrutta da un lutto che scatena improvvise prese di coscienza. Più che in una scatola di vetro, in un rettiliario, come accennava il libretto di sala, l’impressione che si ha è quella di una vetrina che rende tutto esposto, vulnerabile ma intoccabile. Una vetrina del lutto, che da sofferenza privata diventa reclusione sfacciata, resa esplicita dalle scelte registiche. Un contatto mancato con il mondo, che si trasforma in contatto mancato in famiglia: quasi non esiste infatti tra le donne, se non in alcuni momenti chiave e di forte intensità emotiva. Contemporaneamente, però, lo spettatore riesce a entrare nella casa di Bernarda Alba, a partire dai minuti iniziali che si mostrano come se fossero un prologo. Quanto succede all’inizio, sulle note dell’inno di Edoardo Vianello “Guarda come dondolo” che ci ricorda la fine degli anni Novanta, è un impressionante riassunto dell’opera: vengono subito messi in scena i gesti che si ripeteranno con costante ciclicità all’interno dell’intero spettacolo, dalle repentine cadute di Amelia (Matilde Vigna) ai continui riferimenti al cappio di Adele (Giuliana Bianca Vigogna).
L’ambiente appariva talvolta asettico, estremamente freddo e distante, non perché lo fosse realmente, ma perché lasciava spiragli di emotività, dati dal ballo e dalla musica. Il tutto ribaltato in una dimensione vetrinistica isterica, finta, quasi meccanica, che raggiunge il massimo del proprio climax nello stupro di Martirio (Paola Giannini), in cui si confondono violenza fisica, verbale e di genere. Anche la disperazione di Adele che prova in modo straziante a fuggire dalla casa riporta allo spettatore l’asetticità, la claustrofobia delle relazioni e dei rapporti. Mancano colori, che compaiono solo in conclusione per gelare il pubblico.
Brillante la scelta del regista di mettere in scena, insieme alle donne, una figura mascherata di nero e irriconoscibile, a rappresentare il genere maschile nella sua totalità, con cambi repentini e incerti di personalità. Non è un personaggio definito, ma ha una forza immensa: è la presenza maschile a determinare i mutamenti e rende difficile l’emancipazione femminile. L’emotività è costantemente spezzata, ribaltata e riplastificata in vetrina. Dopo lo stupro e dopo la rivolta delle figlie che scelgono di togliere la parrucca, i personaggi diventano quasi irriconoscibili. Anche l’uso della luce rimanda al neon piatto delle vetrine e le interessanti entrate e uscite di scena portano il pubblico al punto di non comprendere più la dimensione dello spazio.
Un lavoro eccelso di Leonardo Lidi, una cartolina che invita il pubblico a non perdere il prossimo appuntamento in cartellone a maggio al Teatro Carignano, con “Il misantropo” di Molière. Una regia che porta sul palco il classico di Lorca con un velo di modernità, verità e un po’ di pelle d’oca.
Giulia Basso