L’incessante danza d’insetto nella creazione di Gleijeses-Barba
A teatro capita raramente di imbattersi in personalità che investono in tenacia, impegno fisico e senso di ricerca. Sono state le prime considerazioni fatte dopo aver visto in scena Lorenzo Gleijeses, giovedì 30 settembre al Teatro Quirino, in “Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa”. E fresca di questa esperienza, mi sono chiesta cosa voglia dire oggi fare performance. Può ritornarci utile in merito lo sguardo del regista Romeo Castellucci, per il quale la performance si distingue dal teatro in termini di meccanica, è un qui ed ora, in cui cruciale è la presenza autobiografica dell’artista che si espone. Ha molto a che fare con il martirio, perché il performer è qualcuno che si offre come un’oblazione a delle persone che divorano la sua presenza.
È proprio sull’onda di questa visione che possiamo inquadrare le partiture fisiche offerte da Lorenzo, ripetute in modo maniacale nello spazio, in infinite varianti e con una precisione al limite dell’ossessivo. Il palco stesso si trasforma in un organismo vivente che sprigiona energia e in cui il danz-attore gioca con quadrati e rettangoli imbevuti di luce, sorprende, parla, scrive, seleziona, distilla brani di prosa o poesia, improvvisa scene tra corde appese che limitano lo spazio. Una reale confessione del corpo che risente molto di un lavoro puntuale sul training caro al terzo teatro, non a caso lo spettacolo è la prima regia firmata da Eugenio Barba (con Gleijeses) al di fuori dell’Odin Teatret. La creazione, frutto di una “mente collettiva” (alla regia oltre Barba anche Julia Varley), è scaturita dall’accostamento dell’opera di Kafka con gli oggetti coreografici allestiti da Michele Di Stefano, su scene di Roberto Crea. Ne è nato uno spettacolo in cui si intersecano tre diversi nuclei narrativi: alcuni elementi biografici dello stesso Kafka, (molto di quello in “Lettera al padre”); la vicenda del personaggio centrale de “La Metamorfosi” Gregorio Samsa, e quella di un immaginario danzatore omonimo risucchiato dal perfezionismo dei propri materiali performativi in vista di un imminente debutto. A tratti anfibio, a tratti scarafaggio che si contorce a terra, Lorenzo cade e si rialza continuamente, reduce di un duro addestramento corpo-mente che denota una chiara appropriazione del materiale scenico. E anche noi spettatori sentiamo le vibrazioni delle sue cadute raggiungerci sotto i piedi. A rompere gli schemi tradizionali contribuisce anche la disposizione degli spettatori stessi prevista direttamente sul palco, formula questa adottata spesso negli spettacoli dell’Odin. Sulla musica percussiva di Mirto Baliani, percepiamo con un certo senso di impotenza misto ad irritazione i monologhi allucinanti del performer, intrappolato in una ragnatela di contatti, a partire dalla figura paterna che lo chiama al telefono (la voce è del genitore, l’attore e regista Geppy), dalla psicanalista, (voce registrata da Julia Varley), e ancora dalla compagna Maria Alberta Navello, tutte voci-off. Il moto perpetuo di Lorenzo-Gregorio è un andirivieni micidiale di cose, corpo, gesti in cui appare impossibile un approdo consolatorio. Sulle note di Sound of Silence, passando per brani di elettronica, fino a Casta Diva della Callas, l’incessante danza d’insetto di questo performer si fa sempre più martellante, e in uno dei suoi tanti flussi di coscienza, fa anche una considerazione sulla “dromoscopia”, termine con cui il filosofo Paul Virilio critica l’odierna idea del viaggio che ha fagocitato i concetti di esplorazione e di percorso in favore dell’idea di spostamento rapido, quasi istantaneo, tipico dei nostri giorni. Altra dura presa di posizione è rivolta ai mass-media, la si coglie quando Lorenzo si fa carico sulla schiena di un grande televisore che amplifica l’onta di frustrazione inflitta dai mezzi tecnologici che lo circondano, e lo inducono a farsi sempre più piccolo e chiuso in se stesso, fino a diventare cadavere, mentre un piccolo robot aspirapolvere quasi giocattolo continua a scontrarsi contro i suoi arti.
Sul finale, grondante di sudore, Lorenzo-Gregorio ci rivela tutta la sofferenza patita di fronte a un’autorità paterna sorda alle esigenze di un animo particolarmente sensibile. Ma è anche, innegabile, doloroso e invincibile, il bisogno di riaffermare se stesso, davanti a una terribile negazione. Si rialza ancora una volta, quasi in un atto di fede, deciso a liberarsi della gabbie di assurdità e disvalori che lo imprigionano. Corre inarrestabile, sulla strada di fuoco che porta al buio, come gli ha insegnato il suo maestro. Ed è fulgida la luce che si staglia sulla parete in fondo nel finale. Qualcosa improvvisamente esplode. I gesti si fanno più veloci e intensi. Il volume della musica aumenta, gli occhi sono rapiti dai continui frame di movimenti proiettati dietro sul telone bianco. In un vortice di disperazione e ambizione, fiducia e speranza, le gambe di Lorenzo non si fermano più, e solo quando il buio si è impadronito di tutta la scena, il rumore dei passi cede il posto al respiro. In quel respiro affannato che è un urlo primordiale lo spettatore si riconosce e si ferisce.
Diana Morea