Susanna: animale e figlia di re
“Susanna” (Castelvecchi Editore, pp. 76, euro 11,50) è l’ultimo scritto di Gertrud Kolmar, poetessa tedesca, prima della deportazione ad Auschwitz. Susanna, ventenne lievemente affetta da nevrosi, viene affiancata da un’istitutrice, vice narrante della storia. Susanna, rimasta orfana, a detta del suo tutore, non soffre “ma è come se si trovasse in aperta campagna, sotto un cielo limpido e azzurro. Le nuvole che incombono sopra ognuno di noi non la opprimono. Le barriere che costringono e intralciano noi adulti per lei non esistono. Perché è solo una bambina: una bambina allegra e buona.”
Susanna è anche molto bella, “Bella era, perfetta nella pelle delicata, nell’incarnato avorio antico, la fronte rotonda sotto i capelli neri, il naso sottile e dritto.” Così la vedono gli altri. Gli uomini la guardano sfrontati, le donne con scherno e disappunto. Ma Susanna, per quanto ingenuo, ha un pensiero di sé stessa. Si sente animale e figlia di re. Nella sua testa mescola realtà e storie che le hanno raccontato, mito e religione. Usa il linguaggio in modo peculiare, evitando parole che le suscitano sensazioni poco gradite. È un mondo quasi di fantasia il suo, soprattutto un mondo pulito, dove amare non è peccato. Ma è solo un sentimento. Per lei è naturale, dunque, innamorarsi di un vicino di casa, sentirsi ricambiata. Quando la madre di lui e gli eventi li separano, Susanna non capisce. E chi capirebbe l’ostacolo a un amore, quando amare è la cosa più istintiva e naturale al mondo? La stessa istitutrice, che per sua stessa ammissione non ha mai amato né è stata amata, resta ammaliata da Susanna, la supporta come può e biasima chi la mette ai margini. Margini che sono solo convezioni.
Susanna è una storia sulla solitudine, quella di chi viene emarginato e quella di chi sceglie di vivere ai margini; quella di chi non può vivere il proprio amore, e quella di chi l’amore non l’ha mai provato. In fondo, Susanna e l’istitutrice non sono poi molte diverse. E non a caso, dagli abitanti del posto anche l’istitutrice è guardata con sospetto, perché estranea, diversa. È facile pensare che il racconto sia influenzato da una condizione personale dell’autrice, la cui vita è stata ghettizzata prima e spezzata dopo. È facile anche immaginare come dolorosamente evocativi i binari del treno su cui Susanna si allontana. Ed è una considerazione banale, certo, ma vale forse la pena di farla considerando i corsi e ricorsi storici. Ogni vita spezzata, è anche un potenziale, un talento in divenire che non potremo mai apprezzare. È un arricchimento reciproco, un senso stesso della vita di cui tutti vengono privati. Già questo dovrebbe far venire voglia di cessare ogni forma di violenza contro ogni forma di vita.
Laura Franchi