“Perdersi”, il diario intimo di Annie Ernaux
È un diario intimo l’ultimo libro di Annie Ernaux, ma non è una novità che l’autrice si mostri così esplicita, nuda e cruda e senza troppi giri di parole.
“Perdersi” (L’Orma editore, pp. 252, euro 21) – tradotto sempre dalla penna attenta e precisa di Lorenzo Flabbi – è un’evocazione, una scrittura che parte da dentro e che smuove tutto, dai più profondi desideri sessuali fino all’angoscia frustrante dell’attesa. È ciò che si nasconde dietro al precedente libro Passione semplice, una rifinitura che ne svela tutti i dettagli e le sfaccettature, senza salvezza.
“Perdersi” è una vera e propria ossessione, che porta inevitabilmente a toccare il fondo. Perdersi annullandosi per l’altro per poi illudersi di essere sempre pronta a perderlo. Nulla di più semplice, nulla di più umano. E Annie Ernaux anche è umana e, come tale, anche lei si perde – tra il 1988 e il 1989 – tra le braccia e in una forte passione per un diplomatico sovietico di circa quindici anni più giovane di lei, S.
“Nessuna prudenza da parte mia, nessun pudore, e anche, finalmente, nessun dubbio. Un cerchio si chiude, commetto gli stessi errori di una volta, e non sono più errori. Nient’altro che bellezza, passione, desiderio”.
Quanto è meraviglioso e misero l’amore allo stesso tempo, un amore che la trascina in “un terrificante desiderio di morte e di scrittura”, sempre pieno di bellezza. Ne nasce così un parallelismo tra il presente e i ricordi, dove lei stessa mette a confronto le diverse misure della disperazione col passare degli anni e dei suoi libri.
Ma è davvero così facile, a quasi cinquant’anni, commettere gli stessi errori commessi da giovane? È davvero possibile provare disgusto, alienazione, dolore in un unico momento e per qualcosa che dovrebbe solo risvegliare felicità?
“È vita questa? Sì, probabilmente, sempre meglio del vuoto”.
È comunque vita, quell’incapacità di comprendere l’altro che porta a un’insana ossessione, fino a diventare un’idea “così forte che va a sostituire l’idea della morte”. L’attesa opprimente di una chiamata, l’attesa continua dell’altro per cui lei era, alla fine, solo un oggetto sessuale.
Un atteggiamento logorante, probabilmente legati al vuoto del passato, forse all’aborto o alla morte della sua stessa madre. Un vuoto incolmabile, lacerante e dannoso, a provocare una scarsa fiducia di sé e l’assuefazione della mancata realizzazione di un amore a cui è meno doloroso sottostare che da abbandonare.
Nessuna critica per un dolore così umano, ma solo ammirazione per aver donato agli altri pensieri così intimi e intensi, da far toccare il fondo per poi rinascere più meravigliosa di prima.
Marianna Zito