PER TUTTI LEZIONI D’AMORE NE “LA SCUOLA DELLE MOGLI” DI MOLIÈRE ALL’ELFO PUCCINI DI MILANO
Arturo Cirillo, attore protagonista, regista, testimone, ormai amico di Jean-Baptiste Poquelin – Molière – è il capitano di questo arrembaggio all’Elfo, in cui la commedia antica squarcia qualsiasi timore reverenziale e conquista i cuori della platea piena, saccheggiandoli della merce superflua. Perché di fronte alla grande commedia, quando si mantiene la purezza del progetto originale, non c’è spazio per pregiudizi e buonismi.
Come spesso succede nella graffiante poetica di Cirillo (e in quella di Molière attraverso lui) proviamo simpatia per il protagonista Arnolfo, ricco e possessivo tutore dell’ingenua Agnese (irresistibile Valentina Picello) nonostante lui incarni un archetipo dichiaratamente “viziato”, “settato” su un errore. Anche qui, una volta stabilito un legame di empatia tra protagonista e spettatore, si manifesta il tragico eccesso: per scongiurare il massimo disonore che possa capitare a un galantuomo (le corna), Arnolfo gestisce, coadiuvato dai servi (Rosario Giglio e Marta Pizzigallo) un severo piano di protezione/prigionia della giovane Agnese, che intende sposare. È un “piano” dalle pulsioni animalesche e demoniache che arriva a contemplare la violenza, commissionata ai servi, su un giovane innamorato della ragazza (un pirotecnico Giacomo Vigentini) di cui si finge amico. Tuttavia Arnolfo è anch’egli innamorato, e di conseguenza fragile. L’operazione catartica di cui si fa portatore consente di contattare per riflesso quelle componenti dei meccanismi umani, quelle parti di noi che troppo spesso oppongono dei blocchi ai flussi e ai disegni misteriosi dell’amore, e pretendono sottometterli alle istanze egoiche della ragione.
“La scuola delle mogli”, opera tra le più mature di un drammaturgo squisitamente didattico, ci insegna il ribrezzo per quelli componenti limitanti, qui portate a galla e sviscerate. Arnolfo non si limita a vivere i suoi demoni interiori, ma ce li racconta con estrema trasparenza, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione: la parola e il gesto sono dilatati, sempre mossi da dirompente visceralità, e cavalcando l’onda prende e sposta la grande e suggestiva scena di Dario Gessati in ogni cambio scena, sopra le musiche di Francesco de Melis. I costumi dal sapore fiabesco e ironico senza tempo sono di Gianluca Falaschi. In un inaspettato finale, la saggezza dei servi si rivelerà ancora una volta indispensabile a portare equilibrio in una situazione annodata. La regia intelligente stabilisce con vigore i binari di una tensione su cui far scorrere fluidamente grandi cambi emotivi ed impegnative battute in versi. Il cast, istrionico e preciso, si avvale di una recitazione di carattere, più fisica che psicologica, ed è in grado di apportare ricchezza di sfumature personali in canali definiti, sintetici, riconoscibili, assolutamente mai banali. Lo spirito del drammaturgo francese ma così “italiano” per gusto, indole e formazione, ha modo di rivivere anche oggi, anche in corso Buenos Aires a Milano, e continuare a far ridere, commuovere e riflettere.
I.R.