Netti contrasti nella Turandot al Teatro Regio di Torino
Un pubblico in visibilio e uno scrosciante applauso ricco di emozione al termine del “Nessun dorma!…” interpretato dal tenore Mikheil Sheshaberidze nelle vesti di Calaf, il principe ignoto figlio di Timur (re tartaro spodestato impersonato dal basso Michele Pertusi), durante la rappresentazione della Turandot di Giacomo Puccini al Teatro Regio di Torino dal 22 aprile al 5 maggio. Il dramma lirico in tre atti e quattro quadri, con il libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni tratto dall’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi, va in scena in una versione assolutamente originale. Innanzitutto per la particolarità dell’incompiutezza dell’opera: dopo il suicidio di Liù pare che Puccini avesse avuto difficoltà a concludere in maniera coerente il proprio lavoro. Il finale più conosciuto oggi è quello ricostruito da Franco Alfano sulla base degli abbozzi superstiti, ma in questa produzione del Teatro Regio di Torino avviene qualcosa di decisamente inusuale: come fece Toscanini nella direzione della prima rappresentazione alla Scala nel 1926, l’esecuzione si interrompe proprio dopo la morte di Liù. L’allestimento visionario e metafisico firmato da Stefano Poda ha visto la sua prima rappresentazione nel 2018 ed è stato riproposto per la presente stagione. Una regia che ha lavorato cromaticamente su forti contrasti: sullo sfondo di una scenografia scarna ma al contempo imponente, il sipario si apre su una scena luminosa e bianca, quasi lunare e certamente onirica, che presto si macchia del nero dei costumi di alcuni dei personaggi. Labile il confine tra notte e giorno, sogno e realtà reso da Poda, in una scena immersa nel mistero. Nella visione pucciniana dell’opera, il coro non è solo un elemento di contorno, ma un vero e proprio personaggio che agisce, soffre e interviene. La bravura di Poda consiste proprio nell’essere riuscito a rendere il coro veicolo della vicenda: “tutto avviene nella mente, in un sogno, e l’immagine di Turandot è puramente una riverberazione nella mente di Calaf: Turandot non esiste, ma allo stesso tempo vive replicata in ogni donna che abita il palcoscenico”. Questa peculiarità si riscontra in maniera forte e immediata nella scelta registica di vestire tutte le figure femminili uguali a Turandot, di far compiere loro i medesimi movimenti, fino al farle cantare in playback durante le arie interpretate da Turandot. La dimensione onirica è sottolineata dal fatto che la protagonista sembra essere il frutto di una fantasia, un muro da abbattere per scoprire l’alterità. E proprio in questo caso serve tornare sulla questione dei netti contrasti. I personaggi pucciniani qui sembrano costruiti per completarsi, incastrarsi come pezzi di un grande puzzle: il gelo della principessa si contrappone all’amore senza limiti di Liù. Un amore che sfocia nell’atto estremo della morte in favore della vita, del futuro e delle possibilità dell’Altro. La Turandot di questa versione, interpretata dalla soprano Ingela Brimberg, è algida, quasi un automa, impassibile, e volutamente replicata in numerose figure identiche. Plauso di merito per Liù (la soprano Giuliana Gianfaldoni) che è invece una forte individualità, al pari di Calaf, passionale, sincera e umana.
I sentimenti forti che animano le scene e i personaggi sono amplificati dal sapiente utilizzo della danza contemporanea come mezzo espressivo primitivo e corporeo: non semplice decorativismo ma espressione pura della narrazione. Eccelsa in tal senso Nicoletta Cabassi nelle vesti di Pu-Tin-Pao.
Necessari e simpatici Ping (il baritono Simone Del Savio), Pang (il tenore Manuel Pierattelli) e Pong (il tenore Alessandro Lanzi) che intervengono ad equilibrare e ad alleggerire la trama e la scena altrimenti forse pesanti.
Accanto a loro sul palco il tenore Nicola Pamio nelle vesti dell’imperatore Altoum, il basso-baritono Adolfo Corrado (un mandarino), Sabino Gaita (il principe di Persia), Pierina Trivero (prima ancella), Manuela Giacomini (seconda ancella).
Imponente l’orchestra diretta dallo spagnolo Jordi Bernàcer, per la prima volta sul podio del Teatro Regio di Torino.
L’opera non-finita di Puccini ha segnato la fine della grande produzione operistica, ma l’assenza di un finale non fa che rendere in-finito il lavoro del compositore lucchese e l’eternità dell’Opera lirica.
Giulia Basso
Fotografia di Andrea Macchia