MALACARNE – Donne e manicomio nell’Italia fascista di Annacarla Valeriano
Marianna, Letizia, Giovanna, Maria, Filomena, Caterina, Ida… è infinito il numero dei nomi di donna che scorrono sotto i nostri occhi, pagina dopo pagina, in MALACARNE – Donne e manicomio nell’Italia fascista (Donzelli Editore, 2017) di Annacarla Valeriano. Donne che quarant’anni fa si sono logorate e dissolte all’interno di quei manicomi chiusi nel 1978 dalla legge Basaglia. Donne a cui l’autrice riassocia una vita, una voce e un volto in queste pagine dove ci viene raccontato il modo in cui la nostra società ha utilizzato e utilizza l’esclusione come “un contenitore in cui depositare le proprie paure”, i pregiudizi e le insicurezze verso quegli individui che ne minacciano gli equilibri e la moralità e che, di conseguenza, venivano e vengono allontanati dagli spazi pubblici, per consumare la propria esistenza altrove.
La ricerca di Annacarla Valeriano comincia dalle cartelle cliniche delle donne ricoverate nel manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo (all’epoca uno dei più grandi e importanti istituti dell’Italia centro–meridionale) dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino al 1950. Questo fenomeno manicomiale ha il suo apice durante il periodo fascista, quando le donne che si allontanavano dalle idee del duce – che le voleva mogli e madri esemplari – erano considerate malacarne (madri inadeguate, ragazzi ribelli e isteriche) e venivano, quindi, allontanate dalla società perché inquinatrici del “patrimonio biologico e morale” dello Stato, non dedite ai loro doveri ma perse in condotte vergognose e sconce. Il più delle volte erano le famiglie stesse, i padri e i mariti a decidere il destino di queste donne: la loro condotta poteva danneggiare chiunque avesse a che fare con loro. E così, il regime cominciò a costruire la normalità ponendo confini e regole a caratteristiche mentali e fisiche dei cittadini ideali, tanto che durante il Ventennio si ha un considerevole aumento di persone ricoverate, un lavoro che continuerà anche ben oltre la caduta del fascismo. Dal canto loro, queste donne ribelli erano solo alla ricerca di indipendenza e libertà: disobbedivano, fuggivano dalle dinamiche ostili familiari, alcune anche di notte. Non erano pazze e non volevano stare con i pazzi, erano eccitate, ciarliere, capricciose, sboccate, sconclusionate, prepotenti e per lo Stato costituivano una grande fonte di minaccia.
Annacarla Valeriano – attraverso uno studio approfondito – analizza le diverse fasi storiche di questi processi, soffermandosi, inoltre, anche sulle situazioni psicologiche di questi soggetti e, in particolar modo, su quelle emozioni negative che diventano facilmente causa di problemi psichici. Per arginare tutto questo, il sistema consolidò una coscienza culturale basata su divisione tra sessi per inserire le donne all’interno di un programma (fascista) senza però modificarne né i ruoli tradizionali né “la personalità delicata e profonda” che le vedeva pacifiche nel ruolo di mogli e madri. La funzione naturale materna, l’igiene della casa, la famiglia di stampo cattolico diventano una missione patriottica: chiunque attentava al pacifico sviluppo della nazione doveva essere messo in condizione di non nuocere. La libertà per queste donna arrivava solo con la morte. Ma che tipo di morte? Nessuno dei decessi risulta legato a malattie mentali: malarioterapia, insulinoterapia, elettroshock erano le cure a cui venivano sottoposti i ” pazienti”, cure che continuavano anche se nocive e inefficaci.
L’autrice mette a nudo situazioni taciute, accanimenti psichici e terapeutici causati da un’idea di devianza legata alla condizione femminile, che ancora tutt’oggi risulta evidente e persistente. Parlarne e soprattutto conservarne la memoria, diventa un atto doveroso nei confronti di queste sfortunate vite di cui non ci rimangono che le parole delle lettere ai loro cari, parole di dolore e sangue, ma non per questo prive di amore per quella vita negata senza un reale perché.
Marianna Zito