“Le età dei giochi. Un’infanzia in Transilvania” di Claudiu M. Florian
Vincitore del Premio dell’Unione Europea nel 2016, “Le età dei giochi” viene tradotto per la prima volta in Italia dalla sempre meritevole Voland, che alla narrativa europea e balcanica dedica un’attenzione quasi unica nel panorama editoriale italiano. La prima edizione del romanzo fu pubblicata nel 2008 in lingua tedesca, mentre nel 2012 viene presentato in lingua rumena e ampliato di molte pagine in più. In questa versione il libro ha vinto nel 2016 il Premio dell’Unione Europea ed è stato quindi tradotto dall’ottimo Mauro Barindi.
Il protagonista del romanzo, un bambino mai nominato, si divide tra due lingue, due culture: il tedesco e il rumeno. Dal Medioevo, infatti, con l’occupazione della Transilvania da parte dell’Ungheria, venne favorito l’insediamento di popolazioni germaniche, al fine di rafforzare le difese dalle incursioni barbare. Le due principali comunità che si stanziarono sul territorio furono quella dei Sassoni, a cui appartengono l’autore Claudiu Florian e il protagonista del romanzo, e quella degli Svevi, stanziata nel Banato, tra Romania e Serbia (ricordiamo che dalla regione del Banato proviene il Premio Nobel per la Letteratura nel 2009 Herta Müller ). Il protagonista, come dicevamo, è un bambino che ci racconta i fatti della sua vita in un arco di tempo tra i cinque e i sette anni, che corrispondono al periodo tra l’asilo e il primo giorno di scuola. In prima persona, il bambino si rivolge al lettore e ci racconta gli accadimenti quotidiani suoi e della famiglia e, dal suo punto di vista, del Paese. Vive con la nonna sassone e il nonno rumeno in un villaggio sassone, anch’esso anonimo, nei pressi del quale vive anche lo bisnonno, mentre i suoi genitori sono costretti per lavoro a vivere a Bucarest.
“L’età dei giochi” è dunque anche una storia generazionale. Un continuo confronto/scoperta di un mondo diviso in due: dalla lingua rumena e tedesca da comprendere per coglierne le sfumature di forma e di senso; dal bambino costretto per necessità a vivere coi nonni e coi genitori, assenti per il lavoro che li tiene lontani; una divisione politica, da una parte le repubbliche sovietiche, dall’altra quelle del blocco occidentale. Dalla sua posizione privilegiata, dal basso della sua altezza, il bambino guarda, scruta, analizza parole, gesti, usi. Florian racconta proprio questa doppia anima, tedesca e rumena, a iniziare dalla lingua. Tutto è di “tanti-tipi” per il bambino protagonista. “Le persone che si trovano qui rispetto a quelle che si trovano altrove, una lingua rispetto a un’altra, le nostre feste, a casa, rispetto a quelle che si vedono nel televisore rossobruno. Niente è di un solo tipo. È sempre di due. O di tre. O di quattro tipi.” E così anche il canto di Natale O, Tannembaum si biforca nella sottigliezza della parola O, Tannembaum, che per la nonna e il nonno hanno sfumature diverse, “O, bell’alberello” per l’una e “O, abete” per l’altra. “Le lingue del canto non ci separano affatto se a tenerci uniti sono la melodia e l’occasione che la propiziano. Quanto a me, io li capisco entrambi e so benissimo che loro cantano la stessa cosa, in due lingue vicine di cui sia la Nonna, da un lato, sia il Nonno, dall’altro, si servono quotidianamente per tutto quello che hanno da dire, e che spesso si completano reciprocamente, anche se con una certa dose di discrezione”
La Romania multietnica di Claudiu Florian è questo paradiso di armonia degli opposti o della possibilità di un dialogo tra lingue e culture diverse. Ma la Storia trascina gli eventi nelle tragedie che conosciamo, e lo sguardo del bambino cerca di filtrare l’incomprensibilità di un mondo crudele. Un romanzo generazionale, seppure visto da un solo punto di vista in un tempo circoscritto. È un libro sulla memoria e sulla famiglia, sulle guerre mondiali e l’instaurazione del Comunismo, in pieno regime di Ceauşescu, fino agli anni settanta in cui i cittadini sassoni venivano trattati come merce venduta alla Germania Federale. Il romanzo è contraddistinto da una narrazione fitta e particolareggiata, che mima la curiosità infantile, certo, ma forse in più punti troppo “adulta” per rientrare nella verosimiglianza. È scritto da un’autore che riscrive, da adulto, la propria storia e quella del suo Paese con gli occhi di un bambino, ponendosi specularmente al suo protagonista, così da poter guardare la Storia dall’alto cercando di ricostruirne le origini con lo sguardo innocente e ingenuo di un fanciullo che non ha mai perso la speranza di poter ricostruire un mondo armonioso, in cui possa bastare il canto armonioso di tante lingue per farsi capire e, forse, amare.
Giovanni Canadè