Roma Jazz Festival 2019 – 43° edizione “No Borders Migration and Integration
Icone della storia del jazz come Archie Shepp, Abdullah Ibrahim, Dave Holland, Ralph Towner e Gary Bartz ma anche i più interessanti esponenti della nuova scena come Kokoroko, Moonlight Benjamin, Donny McCaslin, Maisha e Cory Wong, in grado di far scoprire il jazz alle generazioni più giovani. Le grandi protagoniste femminili come Dianne Reeves e Carmen Souza al fianco dei talenti più recenti come Linda May Han Oh, Elina Duni e Federica Michisanti. Le esplorazioni mediterranee e asiatiche dei Radiodervish, Tigran Hamasyan e dell’ensemble Mare Nostrum con Paolo Fresu, Richard Galliano e Jan Lundgren da un lato e le contaminazioni linguistiche di Luigi Cinque con l’Hypertext O’rchestra dall’altro. Il batterista anti-Trump Antonio Sanchez e il suo jazz ai tempi del sovranismo e la nostalgia migrante raccontata in musica dalla Big Fat Orchestra. Il tributo a Leonard Bernstein di Gabriele Coen e il pantheon jazz evocato da Roberto Ottaviano.
Sono i protagonisti della 43° edizione del Roma Jazz Festival che dal 1° novembre al 1° dicembre 2019 animerà la Capitale con 21 concerti fra l’Auditorium Parco della Musica, la Casa del Jazz, il Monk e l’Alcazar. Il Roma Jazz Festival 2019 è realizzato con il contributo del MIBAC – Ministero per i Beni e le Attività Culturali ed è prodotto da IMF Foundation in co-realizzazione con Fondazione Musica per Roma.
No borders. Migration and integration è l’attualissimo titolo di questa edizione. Un programma pensato per indagare come oggi la musica jazz, nelle sue ampie articolazioni geografiche e stilistiche, rifletta una irresistibile spinta a combattere vecchie e nuove forme di esclusione. Nato come risultato/reazione/sintesi di fenomeni drammatici, come la tratta degli schiavi africani nelle Americhe e le conseguenti discriminazioni razziali, il jazz è un linguaggio universale, uno straordinario serbatoio di risposte creative alle domande e alle tensioni continuamente suscitate da tematiche come confini, migrazioni e integrazione, la cui sempre crescente presenza nel dibattito pubblico ci obbliga a riflettere e a prendere posizione. Fra l’affermazione di una nuova generazione di musiciste che rompono le discriminazioni di genere, le sperimentazioni di inedite ibridazioni dei linguaggi e la riflessione sul dramma delle nuove migrazioni, il messaggio del Roma Jazz Festival 2019 è che possiamo comprendere il concetto di confine solo se accettiamo anche la necessità del suo attraversamento.
In linea con il tema, e a completare il programma del festival, l’artista Alfredo Pirri realizzerà un’installazione visitabile dal 1° al 30 novembre che, oltretutto, ha ispirato il visual del RJF2019. Una struttura dal telaio in ferro e pannelli colorati di plexiglas che dividerà in due la Cavea dell’Auditorium Parco della Musica, epifania del concetto di muro e di confine ma dal senso ribaltato: l’opera di Pirri sarà una barriera luminosa e trasparente, continuamente attraversabile dal pubblico, trasformando il concetto di muro nell’evocazione poetica di un rito di passaggio. Durante il corso del festival, l’installazione sarà elemento attivo di una serie di eventi musicali che la trasformeranno in una vera e propria cassa di risonanza.
L’opera rientra nel ciclo Compagni e Angeli (parole tratte da un brano dei Radiodervish – gruppo che aprirà il festival – ispirato a una lettera di Antonio Gramsci) che il celebre artista cosentino ha realizzato per Roma, Turi (Bari) e Tirana in Albania nell’ambito di un programma di cooperazione trilaterale fra Italia, Albania e Montenegro.
Programma
Il tema dell’edizione, No borders. Migration and integration, esplode subito nei due concerti che il 1° novembre aprono il Roma Jazz Festival 2019, i Radiodervish alle 21 nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica e gli attesissimi Kokoroko alle 21.30 al Monk Club. Artisticamente nati nella seconda metà degli anni ‘90 in una terra di confine come la Puglia, allora teatro delle prime ondate di migrazioni verso l’Italia, i Radiodervish sono la band che più di ogni altra ha disegnato l’orizzonte di un’Italia come ponte fra l’Europa e il Mediterraneo. Prodotti al loro esordio da Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, nell’arco di una carriera di oltre 20 anni hanno pubblicato 10 album e collaborato con musicisti come Franco Battiato, Jovanotti, Stewart Copeland, Caparezza, Noa e Nicola Piovani – per citarne soltanto alcuni – portando il loro inconfondibile cantautorato mediterraneo nei più prestigiosi palchi internazionali di città come Parigi, Beirut, Bruxelles, Gerusalemme, Valencia, Atene, Tel Aviv, Betlemme, Il Cairo e Amman. Da sempre cantano di uomini e donne appartenenti a spazi, culture e tempi differenti, alla ricerca di varchi fra Oriente e Occidente. Non fa eccezione il loro ultimo album, Il Sangre e il Sal, modo di dire in lingua Sabir (l’antica lingua spontanea dei porti del Mediterraneo) per indicare una condizione che è contemporaneamente l’appartenenza, il sangue che ci lega ad una famiglia, e lo sradicamento, il sale che il viaggio lascia addosso. Canzoni che raccontano un Mediterraneo di persone e non di nazioni, attraverso echi di Omero, Pasolini, Panagoulis, Baudelaire.
Giovani, con un solo album pubblicato ma già alfieri di quella scena del nuovo jazz britannico che ha riportato questa musica fuori dai teatri, a contatto con la realtà palpitante della Londra multietnica, i Kokoroko hanno come indiscusso nume tutelare Fela Kuti, l’inventore dell’afrobeat, arrivato a Londra negli anni ’60 dalla Nigeria per fare il medico e diventato in poco tempo musicista leggendario oltre che icona politica africanista. Collettivo di otto elementi inglesi di origine africana guidati dalla trombettista Sheila Maurice-Grey, i Kokoroko mescolano le loro radici nigeriane e West Africa con l’urban sound londinese, ispirati da artisti come Tony Allen ed Ebo Taylor e coccolati da guru come Gilles Peterson. La loro già consolidata fama internazionale è dovuta ai loro live in cui alla imponente presenza scenica si unisce una esplosiva miscela di soul e spiritual che sono cibo per l’anima e dinamite per i corpi danzanti.
Sabato 2 novembre alle 21 in Sala Sinopoli dell’Auditorium PdM sarà la volta invece della statunitense Dianne Reeves, considerata una delle più importanti interpreti femminili di jazz del nostro tempo al pari di Dee Dee Bridgewater, Cassandra Wilson e Diana Krall. Artista pluripremiata con ben cinque Grammy Awards, la Reeves, classe 1956, è cresciuta ispirandosi al magistero di Sarah Vaughan ma col tempo ha ampliato il tradizionale vocabolario jazz innestandovi, con rara eleganza, le varie sfumature della black music e del pop, come dimostra l’album Beautiful Life in cui ha interpretato brani di Bob Marley, Fletwood Mac e Ani Di Franco. Fra i momenti in cui ha letteralmente incantato il pubblico mondiale, la straordinaria, per controllo e potenza emozionale, performance nel film diretto da George Clooney Good Night and Good Luck.
Dalla innata classe di un’elegante signora afroamericana si passa alla esplosiva energia civile di un batterista messicano, grazie al quale il tema del Roma Jazz Festival 2019 ritorna in modo esplicito e diretto, aprendo una finestra sul jazz al tempo del sovranismo. L’appuntamento è lunedì 4 novembre alle ore 21, sempre all’Auditorium PdM ma questa volta in Sala Petrassi con Antonio Sanchez & Migration. Sanchez ha dedicato il suo ultimo lavoro discografico Lines in the Sands al tema dell’immigrazione come risposta alle politiche del Presidente Donald Trump e al suo famigerato muro anti-immigrati. Alla guida del quintetto Migration, il musicista messicano ha composto un lavoro dal netto contenuto politico: tre brani incastonati tra due suite di più di venti minuti ciascuna dove malinconia, forza e speranza sono perfettamente bilanciati. Punto di riferimento per i batteristi di tutto il mondo, componente stabile del gruppo di Pat Metheny, Sanchez è stato celebrato nel 2015 per la strepitosa colonna sonora del film premio Oscar Birdman. Con Pat Metheny suona regolarmente anche la contrabbassista malese Linda May Han Oh, esponente di spicco di quella nuova generazione di musiciste che si sta imponendo in tutto il mondo, cancellando in modo irreversibile decenni di esclusione e pregiudizi. Martedì 5 novembre, nella Sala Petrassi dell’Auditorium PdM, appuntamento quindi con Linda May Han Oh Quartet: sarà l’occasione per ascoltare dal vivo le composizioni del suo ultimo disco Aventurine, lavoro che conferma ancora una volta l’ampiezza di visione di un’artista capace di tenere insieme classicismo e avanguardia. Special guest della serata l’ensemble tutto al femminile Quartetto Artemisia.
Il giorno seguente, mercoledì 6 novembre (h21, Sala Petrassi) si va “all’incrocio delle correnti, dove il mare è più caldo, i venti scompaginano e qualcosa accade sempre”: il Cross Currents Trio è un “supergruppo” formato da una leggenda del contrabbasso, l’inglese Dave Holland, figura centrale del jazz a partire dalla sua collaborazione con Miles Davis in album seminali come Bitches Brew e poi compositore e leader alla testa di gruppi che hanno scritto la storia della musica afroamericana degli ultimi decenni. Con lui il sassofonista statunitense Chris Potter e il percussionista indiano Zakir Hussein, specialista delle tabla. La loro musica esplora le relazioni tra la musica folk indiana e il jazz a partire dalla rilevanza che l’improvvisazione ha in entrambe, proseguendo, con entusiasmo virtuosistico e sincero abbandono, una ricerca che affascina i jazzisti fin dagli anni ’60. Il suono caldo e avvolgente del sassofono di Potter, la tela tessuta dal sobrio e funambolico Holland e i tamburi parlanti di Hussein sono garanzia assoluta di un live davvero imperdibile. Ma il mare non è solo metafora poetica. Spesso, purtroppo, è il luogo in cui perdono la vita esseri umani in viaggio verso la speranza. Ed è da questa condizione che nasce la produzione originale, presentata in prima assoluta sabato 9 novembre alle ore 21 alla Casa del Jazz, Journey Suite della Big Fat Orchestra diretta da Massimo Pirone, ospite speciale Ismaele Mbaye (voce e percussioni). Basata su composizioni e arrangiamenti originali, Journey Suite intende ricreare ed interpretare quelle atmosfere di malinconia, sofferenza e grandi speranze che si manifestano in quelle persone in balia del mare che affrontano un viaggio verso una nuova vita, costretti a superare sacrifici spesso estremi pur di scappare da una situazione difficile. La musica jazz è stata ed è la sintesi di questa diaspora globale dove il poliritmo africano incontra le melodie arabe e la scala cromatica orientale.
Lunedì 11 novembre nella Sala Sinopoli dell’Auditorium PdM, il Roma Jazz Festival 2019 tocca una delle sue vette più alte ospitando uno dei veri giganti del jazz di tutti i tempi, Mister Archie Shepp, accompagnato dal suo Quartet. Carismatico, intensissimo, capace di battaglie artistiche e sociali che hanno davvero cambiato il corso degli eventi nel ventesimo secolo, ancora oggi Archie Shepp, dopo ben 60 anni di carriera, è un autentico fuoriclasse. La reale incarnazione dell’incontro fra l’avanguardia del free jazz e l’impegno politico. D’altro canto, aver condiviso palchi, idee e suggestioni con molti dei più grandi jazzisti di sempre (a partire da John Coltrane e Cecil Taylor) ed essersi ritrovato leader di varie formazioni fin dagli anni ’60 gli ha donato un’aura e uno spessore che pochi musicisti viventi possono vantare. Più di altri e prima di altri, Shepp ha riannodato i fili tra la tradizione africana e i nuovi impulsi del be bop, con la capacità di saper parlare anche al grande pubblico come pochissimi altri musicisti del Novecento. Archie Shepp è il sax jazz che ha accompagnato le politiche di Malcom X. “Il mio sax al servizio della causa dei neri” è la sua frase che sintetizza una vita artistica dedicata alla difesa e alla emancipazione delle minoranze etniche in America. Parlare di Archie Shepp significa evocare una stagione eccezionale ed irripetibile nella quale il jazz era impegnato nervi e sangue dentro una più ampia mobilitazione generale. Tutta la società americana era in ebollizione. Le marce per i diritti civili, le manifestazioni pacifiste, le rivolte dei ghetti. Il tappo del soffocante conformismo era saltato e nuove consapevolezze avevano preso la scena e reclamavano cambiamenti.
Mercoledì 13 novembre, alle ore 21 nella Sala Borgna dell’Auditorium PdM, è la volta di Tigran Hamasyan, pronto ad esibirsi in piano solo. Nato in Armenia (dove attualmente risiede dopo alcuni anni trascorsi a Los Angeles), classe 1987, Hamasyan ha iniziato a suonare all’età di 3 anni, ottenendo prestissimo prestigiosi riconoscimenti: a 16 anni vince il Montreux Jazz Festival’s Piano Competition, a 18 anni pubblica il suo album d’esordio e vince il Thelonious Monk International Jazz Piano Cometition. Nel 2016 ha conquistato l’ambito premio ECHO Jazz Awards come Migliore Pianista Internazionale. Tigran Hamasyan è la prova più convincente di quella ricerca jazzistica sviluppatasi negli anni ’80 che tendeva a far incontrare la tradizione jazz con le musiche popolari e accademiche ma anche con il rock e il pop. Echi della sua identità armena emergono all’interno di uno stile rigoglioso e virtuosistico che guarda spesso alla spiritualità incantatoria delle melodie della musica sacra e profana della sua terra. E da giovanissimo ha iniziato a collezionare premi anche Dayramir Gonzalez, pianista cubano che ha esordito dal vivo all’età di 16 anni nell’orchestra afrocubana di Oscar Valdes Diàkara. Il 14 novembre sul palco della Sala Borgna dell’Auditorium PdM presenta The Grand Concourse, il disco che lo ha consacrato come uno dei più autorevoli esponenti della tradizione afrocubana a New York.
Viene da Minneapolis, la città di Prince, e si sente. La sua è una miscela di funk, funk e ancora funk. È il chitarrista Cory Wong e sempre giovedì 14 novembre alle ore 21.30 è pronto a far tremare le mura del Monk Club di good vibes, come promettono i titoli del suo ultimo album uscito da pochissimo Motivational Music for the Syncopated Soul e del precedente The Optimist. Il giorno seguente, nuova deviazione fuori dalle sale della casa madre del Roma Jazz Festival: alle 21.30 di venerdì 15 novembre all’Alcazar arriva il sassofonista Donny McCaslin, noto anche fuori i confini del jazz per la sua partecipazione a Blackstar, album canto del cigno di David Bowie. Blow, il suo ultimo disco, è una superba espressione di rock artistico, con melodie orecchiabili e assoli di sax, con una gamma di suoni convincenti e un’intensità che impreziosisce ogni traccia. Il suo quartetto ha il ritmo e l’impatto di uno spettacolo rock e la complessità e l’attenzione di un concerto jazz. L’intensità, la passione e la complessità delle parti di synth, la batteria hard, lo spessore del basso, il caratteristico tono del sax di McCaslin sono tutti immediatamente riconoscibili, creando nell’ascoltatore la sensazione che ci si trovi davanti a un artista che è al tempo stesso jazzista, improvvisatore, rocker e musicista pop. Dopo l’energia di Wong e McCaslin, si passa alla malinconia di chi ha vissuto in prima persona l’esperienza dell’emigrazione. Parliamo della musicista albanese Elina Duni, in programma sabato 16 novembre alle 21 alla Casa del Jazz con un concerto in solitaria per voce, pianoforte e chitarra. Nata a Tirana, Elina Duni ha lasciato l’Albania insieme alla madre subito dopo la caduta del regime comunista. In Svizzera ha conosciuto il jazz e se ne è innamorata. Il suo ultimo album, Partir, che si apre con un’abbagliante versione di Amara terra mia di Domenico Modugno è composto da 12 brani cantati in nove lingue diverse e da sonorità che evocano le tradizioni albanesi, svizzere, armene, arabo-andaluse, portoghesi e yiddish. Sono canzoni d’amore e di perdita, che cantano la struggente nostalgia di chi si mette in viaggio, fra il dolore della separazione e il coraggio di cercare nuovi inizi.
E dopo Archie Shepp, un’altra leggenda vivente del jazz e non solo. L’appuntamento con Abdullah Ibrahim è domenica 17 novembre alla Sala Sinopoli dell’Auditorium PdM, ore 21. A voler tentare la difficile impresa di ripercorrere in modo sintetico la carriera di questo strabiliante ottantenne sudafricano, possiamo dire che con il nome di Dollar Brand rimase nel suo paese d’origine fino agli inizi degli anni ’60 suonando al fianco di Miriam Makeba e fondando la prima importante jazz band del continente africano. Costretto all’esilio in Svizzera per fuggire dagli orrori dell’Apartheid, fu scoperto nel 1965 nientemeno che da Duke Ellington che lo trascinò a New York. Negli States divenne membro dell’avanguardia al pari di John Coltrane e Ornette Coleman, con cui collaborò in diverse occasioni, imponendosi grazie al suo originale stile pianistico denominato african piano, sintesi di tradizione jazzistica, innovazioni dell’avanguardia free e influenze africane. Nel 1968 Brand si convertì all’Islam e prese il nome di Abdullah Ibrahim, che gradualmente negli anni fece svanire il ricordo del precedente nome d’arte. Durante gli Anni Settanta e Ottanta, divenne la figura più rappresentativa per l’integrazione della scena jazz africana. Figura simbolo della lotta al razzismo, il pianista è ritornato in Patria dopo la fine del regime. Ascoltare il pianista Abdullah Ibrahim è una esperienza che trascende il puro fatto musicale. La sua musica è meditazione, preghiera e canto, un canto di amore, pace e fratellanza che si rivolge a tutti gli uomini nel segno di un rinnovato umanesimo. Si passa in Sala Borgna il giorno seguente, lunedì 18 novembre, per assistere al concerto del chitarrista, pianista e compositore statunitense Ralph Towner, figura che incarna perfettamente l’ideale di musicista in grado di padroneggiare i diversi linguaggi della musica classica, del jazz, delle musiche popolari, e di saperli fondere in una sintesi avanzata al servizio di una espressività in grado di aderire allo spirito dei tempi. Componente essenziale della storica band Oregon, Towner ha una carriera solistica documentata da oltre quarant’anni dalla casa discografica ECM, della cui estetica inclusiva e trasversale è uno dei più importanti esponenti.
Beat voodoo, rock haitiano, blues americano. È questa la miscela esplosiva che viene fuori da Siltane, l’ultimo album della cantante Moonlight Benjamin, definita dalla stampa la Nina Hagen di Haiti, sul palco dell’Alcazar giovedì 21 novembre alle ore 21.30. Moonlight Benjamin appartiene alla nuova generazione di artisti che sta facendo parlare di sé per la riscoperta della ricca tradizione musicale haitiana, oscurata per lungo tempo dalla vicina Cuba. Trasferitasi in Francia, la Benjamin canta in creolo e francese e nei testi delle sue canzoni denuncia le condizioni di sfruttamento e la mancanza di libertà del suo Paese natale, riflettendo l’immagine di una artista che si interroga sulla sua identità di figlia della diaspora e di musicista cosmopolita. Si ritorna al Monk la sera successiva, venerdì 22 novembre, per l’incontro a dir poco affascinante fra Gary Bartz, un pioniere del genere fusion, e i Maisha, band esponente della nuova scena londinese. Sideman negli anni ‘60 di figure dell’Olimpo della musica jazz come Charles Mingus, Max Roach, Miles Davis, Art Blakey e McCoy Tyner, il sassofonista Gary Bartz nei primi anni ’70 sviluppa il progetto della NTU Troop, formazione nella quale ha fatto confluire la tensione della poesia urbana, il funk, il soul, il blues, il jazz, l’avanguardia, intuendo con felicissimi esiti la complessità del messaggio sonoro afroamericano. E proprio come i NTU Troop, i Maisha, mescolano soul, funk, afro e jazz con rinnovata freschezza. La terza settimana del Roma Jazz Festival si chiude sabato 23 novembre alla Casa del Jazz, ore 21, con Federica Michisanti Horn Trio, una delle musiciste che si stanno imponendo nella scena del jazz italiano come contrabbassiste, compositrici e leader di propri gruppi e progetti. Una vera e propria onda che sta ridefinendo il profilo di questa musica. Nel 2018 la Michisanti ha vinto il Top Jazz (premio della critica indetto dalla rivista Musica Jazz) come nuovo talento. L’Horn Trio la vede affiancata da Francesco Bigoni al sassofono e da Francesco Lento alla tromba e al flicorno, in un jazz cameristico dove il piacere della scrittura si coniuga ad aperture verso l’improvvisazione.
A fianco di altri grandi nomi internazionali, è fortissima la presenza italiana nell’ultima settimana del Roma Jazz Festival. Si parte mercoledì 27 novembre nella Sala Borgna dell’Auditorium PdM (ore 21) con il Leonard Bernstein Tribute a opera del sassofonista Gabriele Coen, il musicista italiano che più ha indagato e lavorato sul rapporto tra jazz e musica ebraica in tutte le sue forme e reciproche acquisizioni. Il suo nuovo progetto è dedicato alla figura del celeberrimo compositore, pianista e direttore d’orchestra del quale sono noti l’amore per il jazz e la vicinanza con i movimenti di liberazione afroamericani come le Black Panther. Dalle musiche del celebre musical West Side Story, ambientato sullo sfondo delle tensioni razziali tra bianchi e portoricani, fino ad arrivare a brani rari, Coen reinterpreta quel patrimonio attraverso la lente del jazz contemporaneo. Si rimane in Sala Borgna anche il giorno seguente, giovedì 28 novembre, con Il Jazz visto dalla Luna di Luigi Cinque e la sua Hypertext O’rchestra che vanta come componenti, fra gli altri, la cantante Petra Magoni, il pianista Antonello Salis e il percussionista Alfio Antico. Special guest della serata Adam Ben Ezra al contrabbasso e voce. Polistrumentista, compositore e regista, Luigi Cinque è considerato uno degli autori rappresentativi della frontiera tra antropologia della musica, scrittura musicale e nuove tecnologie applicate, in grado di passare dalla musica classica europea a quella tradizionale etnica, al jazz, al rock, alle nuove espressioni tecno-acustiche, al teatro, alla danza, alla parola poetica, fino al canto mediterraneo. Il progetto e le musiche originali de Il Jazz visto dalla Luna sono di Luigi Cinque con citazioni di grandi del blues e del jazz nonché di Stravinsky, Varèse, Cage, Davis, Balanescu, AREA, Kraftwerk, African and Balkanian music.
Fra i momenti più attesi di tutto il festival c’è sicuramente il concerto di Carmen Souza venerdì 29 novembre alle 21 nella Sala Borgna dell’Auditorium PdM per presentare il suo ultimo disco in uscita nel mese di ottobre. Il disco è The Silver Messengers ed è un tributo al pianista pioniere dell’hard bop Horace Silver, fra le sue principali fonti di ispirazione. Carmen Souza è una delle voci più interessanti della nuova generazione della world music. Nata a Lisbona da una famiglia capoverdiana di estrazione cristiana, la sua musica fonde tanti generi musicali: dalla morna al batuke, dal Jazz al soul e oltre. Ispirato da Billie Holiday, Nina Simone e Casara Evoria, il suo canto si esprime in melodie inusuali, umori esotici, africanismi, scat jazz, vibrati controllati e frasi dall’andamento imprevedibile. Il suo concerto a Roma sarà una nuova occasione per intraprendere un viaggio fra Capo Verde, Angola, Mozambico, Brasile, Cuba, Stati Uniti, ripercorrere le vecchie rotte dell’Atlantico Nero e tracciarne di nuove.
Il penultimo concerto della 43° edizione del RJF è affidato al sassofono di Roberto Ottaviano che sabato 3 novembre in Auditorium PdM – Sala Borgna, presenta Eternal Love, la sua ultima produzione discografica. In Eternal Love, Ottaviano inanella una serie di composizioni di Abdullah Ibrahim, Charlie Haden, Dewey Redman, Elton Dean, John Coltrane, Don Cherry, accanto a suoi brani originali. La scelta è dichiarata dallo stesso musicista e “richiama ad una presenza tangibile tutta la bellezza fiera e battagliera della madre terra e delle sue migliori anime per celebrare in questi tempi difficili, la speranza e la voglia di riscatto del genere umano”. Una musica che vuole andare all’essenza universale del jazz come preghiera laica, rituale comunitario, canto di liberazione.
Domenica 1° dicembre il festival si chiude con il concerto Mare Nostrum, ensemble composto da musicisti che non hanno bisogno di presentazioni: Paolo Fresu, tromba e flicorno, Richard Galliano, fisarmonica e accordina, Jan Lundgren, pianoforte. In Sala Sinopoli dell’Auditorium PdM, ore 21. Il viaggio del Roma Jazz Festival termina così dov’era cominciato, richiamando con il nome dell’ensemble quel Mediterraneo che è ricordo e promessa di una convivenza fertile. Dal punto di vista artistico, Mare Nostrum non è solo l’incontro di tre personalità forti che hanno sempre praticato la trasversalità dei generi, l’ibridazione dei linguaggi, il piacere della scoperta e del confronto. Ogni musicista porta in dono proprie composizioni e chiama gli altri a condividerle. Il tutto completato da brani di repertorio che provengono da diverse tradizioni, latitudini e pratiche per una collaborazione decennale che si è suggellata in tre album registrati nei rispettivi paesi di origine. Mare Nostrum è uno sguardo aperto sul jazz e sul mondo.
Infine, in occasione del festival, ripartono in Auditorium Parco della Musica le Lezioni di Jazz curate da Stefano Zenni. Giunte alla loro ottava edizione, si confermano l’occasione per approfondire il jazz e le sue figure più significative, i capolavori memorabili, gli strumenti, le connessioni con i grandi temi della cultura. Il ciclo di 10 lezioni avrà inizio il 10 novembre con un incontro perfettamente in linea con il tema del RJF2019: storia e analisi del capolavoro di Charles Mingus Meditations on integration.
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