La Pandora dei Gordi passa dal Teatro Gobetti di Torino
Ieri, al Teatro Gobetti di Torino, c’è stata l’ultima replica di uno spettacolo originale, ambiguo e indefinibile. Trattasi di Pandora, ideato dal Teatro dei Gordi, prodotto dal Franco Parenti e dallo Stabile di Torino, e presentato per la prima volta alla Biennale di Venezia dell’anno scorso. Già ampiamente recensito (anche da noi), probabilmente merita ancora qualche articolo che lo evisceri col fine di comprenderne non solo il contenuto, ma anche il successo. Pandora, infatti, dimostra innanzitutto che anche i pubblici più colti, alla fin fine, nel loro intimo, accettano di buon grado di lasciarsi titillare dai pruriginosi racconti di sincero squallore metropolitano nel quale molti di noi sono immersi, a prescindere dalla pruderie ostentata poi durante l’aperitivo con le amiche fuori dal teatro. C’è ancora qualche anziana coppia – magari consigliata da uno scherzoso nipote che studia lettere o filosofia – che dopo la prima mezz’ora abbandona la platea borbottando, ma per il resto lo spettatore medio accetta ben volentieri di bearsi del momento, ridendo senza immedesimarsi.
Siamo in un bagno pubblico; sul retro di un autogrill, di una discoteca, di un postribolo. Pandora va inteso dunque etimologicamente: tutti i doni, tutti i doni di questa società ambivalente, perbenista, crudele, dolorosa, disgregata, smarrita, e così via. Ma anche rileggendo brevemente il mito (analogo a quello della Eva biblica, peraltro) ci si spiega facilmente questo titolo: i mali del mondo, racchiusi da Zeus in un vaso, vennero liberati dall’omonima fanciulla; ed ecco che in qualche modo sul palco viene allestito il carosello delle conseguenze di quel gesto ancestrale legato alla curiosità che è insita negli umani, e la quale porta inevitabilmente alla conoscenza, che a sua volta è causa del dolore. Una fauna eterogenea ma poi per certi versi affine si ritrova insomma in questa quinta scenografica della vita stessa: viandanti, ballerini, drogati, cuochi, ciclisti, travestiti, omosessuali, sposi, stranieri, inservienti, invasati, indigenti, hippies, impiegati d’ufficio, naturisti, megere, esibizionisti, prostitute, cosacchi ubriachi e persino anziani alieni in tute di acetato e ciabatte di plastica. Un luogo di cruising, un confessionale laico, la succursale dei propri dubbi, desideri e bisogni. Sembra un quadro di Otto Dix, o di Hopper, o di Adami, o andando a ritroso magari anche di Ensor o Toulouse-Lautrec. Leave me as you found me, recita il cartello sopra i lavandini, ma ovviamente gli avventori imbrattano, fumano e scappano. L’obiettivo della regia era indubbiamente quello di creare un’azione controversa e celebrativa di un mondo che (così per come viene rappresentato) esisteva e proliferava fino a quarant’anni fa: non che oggi le cose siano diverse, ma sicuramente sono cambiati i modus operandi. La pièce non si sposta mai da questo bagno ossimorico privo di intimità e anzi, tempio del più sfrenato voyeurismo dove però si narrano e si celebrano anche le ossessioni, i vezzi, le fisime, i sogni, le smanie: è il festival della cupidigia, della libidine, della fame, dell’incontinenza. Il solo aspetto che a livello drammaturgico lascia perplesso l’astante con l’occhio per il dettaglio è l’ironia con la quale viene proposto tutto ciò: per esempio, è accettabile e va benissimo che arrivi una signora e che la stessa si (ri)vesta da uomo, ma perché accalappiare una risata facile facendole dimenticare le scarpe, e costringendola dunque a restare con i tacchi? La tristezza, in certi ambiti, è talmente abissale che se si vuole ricamarci sopra del divertissement bisognerebbe avere ben presente quello che spiegava Pirandello con L’Umorismo già nel 1908. Occorre cioè distinguere il comico dall’umoristico, e prediligere quest’ultimo, poiché compito dell’artista sarebbe di evocare il sentimento del contrario, muovere all’empatia, all’immedesimazione. Poi è chiaro: indubbiamente, il pubblico che approva e che apprezza l’avvertimento del contrario è più ampio, e dedicarsi ad esso è un esercizio legittimo, come son sempre stati legittimi i fabliaux e le vignette di Charlie Hebdo.
Pandora è stato ideato e diretto da Riccardo Pippa. Sul palco: Claudia Caldarano, Cecilia Campani, Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti, Matteo Vitanza. I costumi, sempre azzeccati, sono di Ilaria Ariemme; le scene, riuscitissime, di Anna Maddalenna Cingi; le luci di Paolo Casati. Il Teatro Stabile di Torino ha ospitato lo spettacolo dal 15 al 27 giugno, per un totale di dodici repliche.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Noemi Ardesi