“Il villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti” di Dostoevskij
Parlando di Dostoevskij non è senz’altro il primo titolo che viene in mente eppure, “Il villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti” (Castelvecchi Editore, 2021, pp. 250, euro 17,50) merita di essere letto. Presentato in questa nuova versione tradotta da Miriam Capaldo, con l’introduzione di Erri De Luca, il romanzo rappresenta il primo lavoro di Dostoevskij dopo dieci anni dalla condanna a morte, commutata all’ultimo minuto in lavori forzati dallo stesso zar Nicola I. Come ricordato nel retro di copertina, è lo stesso Dostoevskij, in una lettera a suo fratello, a definire questo romanzo come la sua migliore opera. In effetti, in esso sono riportati personaggi dal profilo interessante sebbene l’intera trama si sviluppi in pochi giorni.
La storia si apre con Sergèj Aleksandrovič che, su invito dello zio Egòr Il’ič- colonnello e possidente- si reca presso il villaggio di Stepančikovo. Egòr Il’ič si è da poco ricongiunto con l’anziana madre, nota con l’appellativo di “generalessa”, rimasta vedova per la seconda volta e intenzionata a non sposarsi più, raggiunge il figlio con diverse amicizie tra cui quella preziosa, almeno per lei, di Fomà Fomič. Ed è proprio attorno al personaggio di Fomà che Dostoevskij traccia il ritratto di un uomo odioso, soggiogatore come pochi, abile oratore che sfrutta questa capacità per affermarsi come autorità morale. Di lui Dostoevskij scrive:
“Immaginatevi dunque un ometto, il più insignificante, il più vile, un rifiuto della società, non necessario a nessuno, perfettamente inutile, assolutamente ripugnante, ma dotato di un amor proprio sconfinato, e per giunta privo di qualsiasi talento con cui poter in qualche modo giustificare il suo amor proprio così morbosamente esasperato”.
Se prima viveva da buffone, celando con scrupolosa attenzione il suo fallimento ad affermarsi come uomo di cultura, cerca a Stepančikovo di avere il suo riscatto, lodandosi da solo. È così che, bramoso di elogi e ammirazione, riesce, passo dopo passo, a crearsi il suo seguito di estimatori, in cima ai quali spicca dapprima la generalessa e poi, inevitabilmente, suo figlio Egòr Il’ič. L’abilità di Fomà sta proprio nello scegliersi i seguaci e infatti, come scriverà Dostoevskij “anche da buffone, egli s’era formato un gruppetto d’idioti che lo veneravano”. Dispotico come pochi, Fomà riesce a costruire il suo personale olimpo, dando ordini a chicchessia, sfociando nel ridicolo quando cerca di imporre persino alla servitù la moralità, il francese e i sogni da fare. Se da un lato il suo modus operandi – così simile a quello di Rasputin – può innervosire, la mitezza del colonnello, che subisce senza mai imporsi non è da meno. L’intera vicenda, infatti, sembra essere favorita dal carattere debole di Egòr Il’ič che solo dinanzi alla prospettiva di perdere la sua amata Na’sten’ka per acconsentire a un matrimonio di convenienza con la ricca ma poco sana di mente Tat’jana Ivànovna che troverà la forza di imporsi e ribellarsi alla volontà di sua madre e di Fomà, costretto a lasciare la casa del colonnello. Ma sarà un evento avverso a riportarlo, presto, sui propri passi, facendo quindi la felicità generale, guadagnandosi un posto sul carro dei vincitori.
Sara Pizzale