Gianni Mercurio racconta Roy Lichtenstein: il culto odierno delle icone e il proselitismo culturale
Sabato 3 agosto è stato pubblicato l’articolo della mostra di Roy Lichtenstein al Mudec – Museo delle Culture di Milano. Abbiamo intercettato il curatore, Gianni Mercurio, e gli abbiamo fatto qualche domanda.
D.M.A. – Secondo lei, che è esperto di arte americana, cosa ha da insegnarci Lichtenstein? Cosa può comunicare a un uomo o una donna contemporanei?
G.M. – Lichtenstein è stato, con Warhol, l’artista che ha maggiormente influenzato il mondo dei creativi, dove non ci sono solo gli artisti ma anche i pubblicitari, i designer e così via. E se oggi, a più di vent’anni dalla sua morte, ci guardiamo intorno, troviamo ancora molti strascichi del suo modo di plasmare immagini. Tanti giovani artisti, a prescindere dal loro grado di consapevolezza in proposito, seguono il tracciato cominciato da Lichtenstein. Poi, se ci soffermiamo sugli insegnamenti che ci ha lasciato, scopriamo che l’aspetto più importante era la sua riflessione sul rapporto tra icone e fruitori delle stesse: con Lichtenstein siamo diventati coscienti di quanto siano rilevanti le immagini nella nostra cultura, e peraltro lui ha avuto la fortuna di poter riflettere su questo tema dagli anni Sessanta in poi, cioè proprio nel periodo in cui le immagini acquistavano progressivamente uno strapotere egemonico a scapito della graduale marginalizzazione della parola.
D.M.A. – Lei lo ha conosciuto personalmente, vero?
G.M. – Sì, ho avuto la fortuna di incontrarlo a Roma quando lui frequentava la American Academy, un posto delizioso sulla cima del Gianicolo dove veniva invitato spesso. Io mi ero laureato da poco, eravamo verso la fine degli anni Ottanta, e lo vidi in un salone della villa con sua moglie Dorothy. Ero stupito, più che altro perché una superstar dell’arte mondiale era in Italia e nessuno lo sapeva. Così mi sono presentato e abbiamo iniziato a chiacchierare. Lui mi disse che veniva spesso a Roma, che gli piaceva molto la città, ma che non aveva mai avuto l’occasione di scoprirla al di fuori dei circuiti turistici. E quindi sono stato il suo cicerone in giro per la capitale; ricordo che mi chiese addirittura se era possibile visitare delle case nobiliari, che per gli americani sono sempre molto affascinanti. Io gli dissi che mi sarebbe piaciuto tanto, un giorno, organizzare una mostra su di lui e sui suoi fumetti. Lui innanzitutto mi liquidò con una pacca sulla spalla, perché effettivamente ero un po’ troppo giovane per un’impresa di quel tipo, ma poi ebbe anche un moto impercettibile di disappunto. Era una persona gentilissima, molto cortese, ma si infastidì perché tutti lo riconoscevano solo per i fumetti, studiavano solo quelle opere. Eppure lui non era interessato neanche ai fumetti in sé, ma al processo estetico che nasceva dalla riproduzione ingrandita degli stessi, che è ben diverso. “Nessuno si preoccupa di quel che ho fatto per altri trent’anni”, mi disse. E allora scoprii anche tutto il resto: le reinterpretazioni della storia dell’arte in base alla sua estetica, le sculture, i suoi tentativi come espressionista astratto, lo studio delle culture dei nativi americani, e così via. Capii che c’era ben altro.
D.M.A. – In effetti, come ho già scritto, il pregio principale di questa mostra è la riscoperta totale di Lichtenstein: i visitatori hanno l’occasione di imbattersi in tante opere lontane dall’estetica e dal significato dei fumetti…
G.M. – Quello era un aspetto al quale io tenevo molto, perché – al di là di quel che si può pensare – Lichtenstein è studiato in maniera dettagliata solo da una cerchia ristretta. Tanti lo conoscono solo superficialmente. E quindi una mostra didascalica era necessaria: ho evitato di essere pedante, ma ho voluto raggiungere il grande pubblico. Se mi dovessi schierare, io sono a favore delle mostre didascaliche, perché comunque favoriscono un sano proselitismo dell’arte e della cultura, che poi è lo scopo principale dei musei.
D.M.A. – Ripartiamo allora da questo proselitismo culturale: se dovesse invitare una persona che non frequenta l’arte a visitare la mostra, cosa direbbe?
G.M. – Di sicuro non partirei da un’opinione, ma da un fatto: alcuni ingrandimenti di fumetti sono stati venduti all’asta per quaranta o cinquanta milioni di dollari. E questo mi servirebbe, quantomeno, per catturare l’attenzione del mio interlocutore, perché da questa nozione scaturisce necessariamente una certa curiosità. Chiaramente non penso che il valore di mercato sia un elemento davvero rilevante; si tratterebbe solo di una provocazione atta a cogliere l’interesse di questo individuo. Poi forse farei un tentativo parlando dei contenuti della sua opera, ma prima sarebbe utile anche contestualizzare la vita di Lichtenstein in un segmento storico preciso. In ultimo passerei a qualche immagine pubblicitaria o cinematografica dove è evidente la sua influenza, per fare capire quanto la sua estetica sia permeata nell’immaginario collettivo, che costituisce anche la vita di chi sceglie di non frequentare l’arte.
Davide Maria Azzarello