Farinelli danzato: la castrazione, il dolore di un re, e altre cose
La scorsa settimana, da martedì 13 a venerdì 16 luglio, Torino è stata il proscenio per un delizioso gala di d’ispirazione variabilmente barocca: prosegue senza defezioni l’encomiabile sodalizio tra il Teatro Astra e la danza. Tre coreografie e una installazione video. Un’introduzione per lembi ben coagulati e una parte più consistente. Titolo: Farinelli e le anime barocche.
L’artista che ha aperto l’evento (purtroppo solo per le prime due repliche) è stato Daniele Salvitto, con la sua Ksama, che noi avevamo già visto al Café Müller nel contesto di Solocoreografico 2021, dove per l’appunto il vincitore fu Salvitto (il che peraltro combaciò col nostro timido pronostico: noi l’avevamo scritto prima della premiazione, che aveva ottime probabilità di guadagnare il primo posto). Un movimento breve, un’azione concisa e studiata: in sanscrito, kshama si avvicina al concetto di pazienza, temperanza, indulgenza; qui fisicamente raccontate in un elegante vortice di gesti e pose che in qualche modo invitano ad una sana e altera acquiescenza. Otto minuti d’impeccabile e inflessibile duttilità: vestito solo di un sussurrante pantalone a palazzo color sabbia, Salvitto conquista tanto gli esperti quanto le ammiccanti signore con giro di perle, che lustrano le lenti degli occhiali per vederlo meglio. Successivamente è stato il turno di Inside Sides, ideata da Tiziano Pilloni per l’Eko Dance Company: una coreografia che già instradava verso il fulcro della serata. Il tema, non del tutto dichiarato ma poi palese, riguardava la storia della femminilità negata al maschio biologicamente inteso: cinque donne circondano un uomo, impersonando quegli aspetti dell’umano che taluni credono solo muliebri. Sensualità, frivolezza, maternità, grazia, dolcezza, e così via e non solo. L’uomo, dal centro, inviso a più fazioni e vittima dolente dell’incoerenza insita negli stereotipi sociali, esperisce un’afflizione per molti incomprensibile eppure reale, palpabile, invisibile solo ai borghesi e agli ipocriti. Il 13, sulle note dell’incantevole Stravaganza di Vivaldi, ha ballato in questi panni il giovane Stefano Milione, coadiuvato da Giuditta Alfarano, Silvia Arena, Veronica Morello, Francesca Raballo e Sara Barbagli: lui leggiadro, delicatissimo; le fanciulle… efficienti. Raffinati, poi, i costumi a tinte pastello, qua e là satinati, dell’Accademia di Belle Arti di Torino. Infine, per chiudere la sezione preliminare della serata, è stato proiettato Phenomenon: cinque minuti di videoart diretta da Cosimo Morleo, intermezzo serio che racconta la frustrazione di coloro che vivevano in bilico tra clamori e solitudine. Qui ritorna Stefano Milione, che recita con Marco Prete sulle musiche di Max Fuschetto. L’obiettivo (a nostro avviso, raggiunto) era quello di dipingere la psicologia del castrato, figura-chiave di tutta la serata, ovvero il maschio evirato per lo sfizio di monarchi e presuli, i quali volevano dar voce agli angeli, che voce non hanno. Ora, storicamente, l’eunuco è quella figura prevalentemente italiana e pre-novecentesca costretta all’evirazione in ambito prepuberale, con l’obiettivo di conservare la voce nel suo tono più acuto e infantile nonostante l’incedere dell’età. Nondimanco, in questa fausta circostanza, l’eunuco diventa anche un simbolo più profondo di tutti coloro che, per motivi di discendenza socio-familiare e spaziotemporale, sono costretti in un’irreversibile gabbia di ambiguità, capriccio reale e controsenso tanto umano quanto disumano. Phenomenon di Morleo è una breve finestra su un mondo dove le pratiche barbare vengono innanzitutto promosse e sovrintese da coloro che in teoria dovrebbero essere i ministri dell’etica e della morale. Un quadretto sicuramente poco ferino e molto indorato, che esprime più un’ipotetica verità sugli accadimenti interiori, spirituali, della vittima evirata. Milione e Prete giocano, si abbracciano, si sfogano. Vittima e carnefice? Confidenti? Amici, amanti? Non è chiaro, ma forse non è neanche così importante.
Il nucleo del programma, tuttavia, è sicuramente Farinelli… del portar la voce al cor, coreografia medio-lunga di Paolo Mohovich su musiche di Antonio Vivaldi, Georg Friedrich Händel, Johann Sebastian Bach, Henry Purcell, Francesco Cavalli. Questa creazione si basa sulla vita del celebre Carlo Maria Michelangelo Nicola Broschi, chiamato Farinelli dal nome del suo protettore e finanziatore nel periodo di studi con Nicola Porpora. Nativo di Andria, amico di Pietro Metastasio, membro della Filarmonica di Bologna, cantò col Senesino per i nobili inglesi, diretti da Händel, per Luigi XV a Parigi; poi si spostò a Madrid, dove la biografia diventò leggenda: Elisabetta Farnese cercava qualcuno che potesse aiutare suo marito, Filippo V, a superare quelle che all’epoca venivano chiamate nevrastenia e malinconia. Filippo guarì, tornò a lavarsi e radersi, e riprese la vita pubblica. Farinelli rimase a corte anche con Ferdinando IV, che lo nominò Cavaliere di Calatrava, ma venne allontanato da Carlo III, che aveva paura della sua fama e della sua potenza. Tutti amavano Farinelli, il suo mito viaggiava tra le corti europee, eppure nessuno considera mai che soffrì anch’egli di depressione. Chissà perché, no? Accompagnati da Cosimo Morleo, qui in veste d’impeccabile controtenore (o, per esser più precisi, di effettivo contraltista) e da Walter Mammarella Giordano al clavicembalo (emozionante: sembra di stare davvero a corte), gli interpreti hanno potuto raccontare il segmento di vita di Filippo V che guarisce grazie a Farinelli: l’intento registico era sicuramente quello di far emergere la vicendevole empatia che può instaurarsi tra i feriti, e di far comprendere come il processo di guarigione possa agevolmente essere affidato ad un medico che in prima persona abbia conosciuto il dolore. Per tutta una serie di ragioni, possiamo supporre che Farinelli e Filippo V siano stati davvero amici, e questa è una dimostrazione di come la sofferenza possa travalicare qualunque circostanza, qualunque provenienza, per unire gli umani sotto un’unica egida. La sera del 13 Farinelli è stato interpetrato egregiamente da Jonathan Beloli, fatato, volatile, lieve; Andrea Carozzi era invece un impacciato e realistico Filippo V. Silvia Arena ritornava sul palco per impersonare Elisabetta. Con loro, quattro dame di corte (Sofia Baglietto, Anna Ocelli, Gaia Triacca, Isabel Zabot), e, strizzati in certe tutine nere come la notte, cinque gagliardi giovanotti (di nuovo Tiziano Pilloni e Marco Prete con Lele Mazzella, Manuele Calvanese e Umberto Rota) traducevano col lessico della danza i cattivi pensieri del monarca. Una vicenda detonante, una faccenda negletta ma opportunamente raccontata e quindi abbagliante. Menzione e premio al decoro: i costumi di Jorge Gallardo e Ilenia Giroldi, tanto semplici quanto metafisici.
Applausi a scena aperta. Un ragazzino, seduto da solo in un angolo, nasconde una lacrima. Due rispettabili signore si danno di gomito accennando a certe impalcature di ardenti addominali che si possono solo vedere e non toccare. Tutti concordi: un’ottima serata.
Davide Maria Azzarello