An American folk opera: “Porgy and Bess” al Teatro Regio di Torino
Per concludere la stagione operistica di quest’anno, il Teatro Regio di Torino ha scelto “Porgy and Bess”: dal 2 luglio al 7 luglio, per un totale di sette repliche, il New York Harlem Theatre ha portato nel capoluogo l’opera più famosa dei fratelli Gershwin, George e Ira. La direzione musicale è stata affidata a William Barkhymer, mentre la regia è invece della più nota Baayork Lee: newyorchese classe 1946, ballerina sin da giovanissima (è la protagonista de Lo schiaccianoci rivisitato da George Balanchine negli anni Cinquanta) e ora coreografa e regista, premiata due anni fa con il Tony Award alla carriera. Le scene sono state ideate da Michael Scott e i costumi portano la firma di Christina Giannini.
Per chi non conoscesse la storia, due parole sulla trama: siamo a Charleston, South Carolina, in una fittizia strada chiamata Catfish Row (letteralmente, la fila del pescegatto); tra Crown e Robbins s’accende un diverbio e il primo uccide il secondo. Bess, la ragazza di Crown, invita quest’ultimo a scappare. Arriva la polizia, e Bess si rifugia a casa di Porgy, il mendicante storpio della via. Nel frattempo Serena, la moglie di Robbins, è disperata per la morte del marito e deve trovare i soldi per una degna sepoltura, altrimenti la salma verrà donata agli studenti di anatomia. Dopo qualche settimana, Porgy e Bess hanno ormai trovato la felicità insieme, ma in occasione di un pic nic, al quale partecipano tutti gli abitati del rione, Crown ritorna in scena, dileggia Bess per il suo nuovo amore, la reclama come sua proprietà e la molesta tra i cespugli. Dopo varie peripezie. Porgy si vendica uccidendo Crown e il mattino successivo viene preso dalla polizia. Bess viene blandita da Sporting Life, lo spacciatore che le offre della droga per consolarla e la invita a fuggire a New York con lui; lei accetta la cocaina ma rifiuta di seguirlo. Dopo qualche tempo, Porgy viene scarcerato e torna a Catfish Row, ma la sua Bess non c’è: è a New York con Sporting Life. Porgy però non si perde d’animo e parte per ritrovare l’amata.
Un melodramma folk, un musical operistico imbastito di spiritual jazz, una storia controversa che ancora divide l’opinione pubblica: “opera negra per negri“, come la definì La Stampa in occasione della prima italiana del 1954, o complessa narrazione socioculturale dedicata a un pubblico eterogeneo? Ancora non si è capito. C’è chi dice che, in fin dei conti, piace a molti, c’è chi prova a spiegare che non basta la vox populi per fare di una storiella una grande opera d’arte. Di sicuro, se si vuole inquadrare “Porgy and Bess”, si può riflettere innanzitutto sul suo profilo profondamente realista: l’obiettivo dei Gershwin era di creare un prodotto popolare disilluso e per nulla esotico, che riflettesse in maniera obiettiva sul funzionamento di quelle sacche della società che procedono a ritmi diversi rispetto a quelli delle masse borghesi, delle famiglie istruite e, quindi, del pubblico medio dell’opera. Volendo spingersi oltre, si potrebbero trovare dei punti di contatto tra “Porgy and Bess” e la “Cavalleria Rusticana” di Mascagni, che peraltro è stata proposta al Regio appena un mese fa: l’idea – suggerita ma in modo esplicito – della comunità arretrata come ambasciatrice di una innegabile cultura collettiva, l’impiego smodato di un gergo popolare che restituisce il gusto tutto vernacolare dei discorsi, la carica religiosa che accompagna ogni pensiero e che sfocia inevitabilmente nella superstizione, e così via. Forse “Porgy and Bess” si distingue per una tonalità di verismo temperato dalla pietà e dall’affetto, ma in fin dei conti i fatti di Catfish Row e quelli di Vizzini non sono così diversi; i punti di partenza e d’arrivo dei Gershwin e Mascagni erano diversi, ma attraverso queste due storie entrambi finiscono per muoversi sulle stesse frequenze. I Gershwin hanno davvero esacerbato quel determinismo verghiano piuttosto spietato per cui le ostriche non possono staccarsi dal loro milieu senza perire: tutti i loro personaggi rimangono intrappolati in loro stessi, nessuno si evolve per il meglio; i buoni rimangono buoni, i cattivi rimangono cattivi e tutti rimangono mediocri. L’idea dell’immutabilità sociale – ingombrante e fastidiosa, diciamocelo – infilza fatalmente le vite dei personaggi: per esempio, nell’ultima scena del terzo atto, Serena spiega a Porgy cos’è successo alla sua Bess; […] She give herself away to de debbil. […] She gone back to de happy dus’, She gone back to de red eye wid him an’ she’s headin’ fo’ Hell. E di esempi come questo ce ne sarebbero tantissimi altri: gli abitanti di Catfish Row non possono emanciparsi, ricadranno all’infinito nei loro errori, in un circolo vizioso che forse va addirittura oltre l’intransigente Verga, per giungere al determinismo angosciante di Émile Zola.
Questa versione di “Porgy and Bess”, nello specifico, restituisce compiutamente quella staticità di cui si è disquisito, ricrea molto bene quel mondo arcaico detentore di una cultura bassa che è anche impenetrabile, insindacabile, inconcepibile. La conduzione di Baayork Lee si inserisce in un sistema predefinito di raffinata paralisi sociale, che si riconferma quindi come caratteristica principale della trama. Forse, però, sarebbe anche interessante riformulare i contenuti per donare un respiro più ampio ai contenuti dei Gershwin, perché altrimenti si rischia di ribadire concetti già appresi e forse anche un po’ demodé. Il cast, poi, canta e recita rispettando le scelte della regia, tenta forse qualche virtuosismo belcantistico in più – è il caso della donna delle fragole, per esempio – ma non può distaccarsi dal tracciato prestabilito. Quel che si è visto al Regio era un “Porgy and Bess” così per come lo si può immaginare, senza reinterpretazioni contenutistiche o formali: “Summertime” viene cantata con la solita grazia, tutti i luoghi comuni sugli afroamericani rimangono al loro posto, l’introspezione psicologica resta molto contenuta.
Davide Maria Azzarello