Vinicio Marchioni è Dino Campana al Piccolo Eliseo di Roma
Cuor selvaggio, musico cuore, chiudo il tuo libro, le mie treccie snodo…
Sibilla Aleramo, 1916
Non è semplice raccontare o spiegare la poesia, soprattutto se non si è poeti: è il mistero della parola che nasce dall’indicibile – dall’onirico – per divenire vita e per salvare il mondo.
Con La più lunga ora – in scena al Piccolo Eliseo di Roma fino al 21 maggio – Vinicio Marchioni ce la dona questa poesia con una sensibilità immensa e inaspettata su di un palcoscenico – ora bianco ora luce – di fogli accartocciati e veli trasparenti sul fondo, a nascondere le ombre di Ruben Rigillo – in un ritmato accompagnamento dal vivo – e di Milena Mancini che, con pacata naturalezza veste le memorie di Una Donna, di Sibilla Aleramo.
Il più lungo giorno è il titolo originario dell’unico prosimetro (pubblicato in seguito come Canti Orfici) di Dino Campana, uno dei nostri primi poeti del ‘900. Un Dino Campana che, dopo quattordici anni di manicomio – ormai ingoiato dalla follia, dalla sifilide, dalla paralisi e dall’amore – vive la sua ultima e lunga ora immerso nei ricordi, che ascoltiamo in una ripetizione quasi ossessiva – tipica dei suoi versi – ora dalla sua stessa bocca ora da quella di Sibilla: le madri, il manicomio, la poesia. La confusione di questi due animi diede vita a tre mesi intensi di amore malato, fatto di urla e percosse – di cui si nutrirono voracemente – che logorò l’uno e fece fuggire l’altra.
È così forte l’empatia che Marchioni e la Mancini creano con il pubblico che quell’odore d’amore di cui tanto parlano sembra quasi di percepirlo sospeso a mezz’aria così come le emozioni che cominciano a sbatterci addosso, come una perenne e continua alba d’amore. I cambi di umore di lui ci gelano, i cambi di amore di lei ci suonano nelle orecchie creando pathos e suggestione e ci disegnano mondi nella mente, avvicinandoci senza esitazione alle metafore simboliche delle poesie di Campana.
Sono la compostezza e l’umiltà con cui questa storia ci viene consegnata a renderla preziosa, quasi come un tesoro sacro da custodire anche nella nostra memoria. Quasi come un sogno. Applausi.
Marianna Zito
Foto da Archivio Teatro Eliseo