“Madrigals”: l’esperimento sovversivo di Benjamin Abel Meirhaeghe
Al Teatro Argentina è andata in scena la Prima Nazionale, il 27 settembre 2022 di “Madrigals”.
Non ho capito; e non è neanche questo il dato che mi ha destabilizzata di più, capita e non è questa la prima volta, ma il vero problema è stato che non ho sentito. E non intendo a livello udito, ma emozionale, ovvio. “Elli bisogna che il nostro dire sia inteso. Sai come? Dirlo chiarozo, chiarozo, acciò che chi ode ne vada contento e illuminato e none imbarbagliato”, diceva S. Bernardino da Siena. Ecco, non avrei potuto saper fare sintesi migliore di questo onesto pensiero. L’artista fa le sue rivoluzioni, e continuerà a farle, per questo il teatro non può morire, perché se ciò accadesse sarebbe la fine; dunque, un tempo interrotto, e i buchi scenici sono piccoli collassi di una storia che aveva qualcosa da dire. La musica, invece, porta con sé l’eternità e i suoi multi sfaccettati codici comunicati – dal pop alla classica – sono comprensibili da tutti – o meglio, c’è chi li percepisce in un modo e chi in un altro, e va bene anche così. Il vero spettacolo è stato infatti vedere il Teatro Argentina abitato da generazioni miste che comunicavano in lingue diverse. Dal di fuori del teatro, al foyer, alla platea e palchetti, l’energia che si diffondeva era già di per sé bellezza. Romaeuropa Festival è tutto questo: musica, teatro, danza, e quando l’arte comunica non necessitano traduzioni. Su questo concetto, credo e spero, siamo tutti d’accordo.
Martedì 27 settembre 2022 al Teatro di Roma è andata in scena la Prima Nazionale di “Madrigals”, Benjamin Abel Meirhaeghe insieme al musicista Doon Kanda ne ha firmato una lettura personale di questa composizione che ha per tema guerrieri et amorosi di Claudio Monteverdi: un grido per raccontare tutte le lotte per la libertà dell’amore. Né in Inferno, né in Paradiso, ma in un Purgatorio avrebbe sistemato questo “Madrigals”, Dante. Perché? Perché la macchina di questo spettacolo era davvero molto complicata, un lavoro enorme, una miriade di elementi simbolici che tendevano a toccare conscio e inconscio, storia e fantasia, una generosità strabordante di effetti scenici, fondali che si alzavano e poi risalivano, un incrocio di spazi nei quali corpi sembrava facessero la loro danza non/danza, una specie di lotta nel fango senza il fango. È stata la summa di tecnologia e classicità – c’era un fuoco ardente vero sul palco -, di atmosfere sospese. Alcun dubbio sul fatto che ci sia stato dietro un grande lavoro, il palco a fatica sembrava contenere tutta quella adrenalina – a tratti bellica, a tratti persino bulimica.
“Ogni singolo corpo corroborato, voci corroborate”, appare scritto in sovraimpressione a voler rimarcare lo scontro dei corpi che si fanno soggetti e oggetti al contempo. Non necessitano questi corpi di costumi, trucchi e parrucchi, no, sarebbero elementi superflui e decisamente distraenti, qui i corpi vogliono sconfiggere la barriera socio-ideologica, non vogliono piacere, sedurre, scandalizzare – ovvio che no – vogliono autodeterminarsi e liberarsi. Il fattore di questi corpi che però mi ha più ‘disturbata’ – forse il termine è un po’ forte, è vero, ma tanto è stato – è che questi, fatta eccezione di un paio, non rivelavano quello che l’animo di un amore che lotta rivela. Mi spiego meglio: il grido implodeva dentro questi corpi, alcuni in forma, altri fuori forma, ma doveva, secondo il mio pensiero, esplodere. Solo nell’esplosione il pubblico avrebbe avuto la sensazione, immedesimandosi, di lottare insieme e con quei corpi. Ma questo non è avvenuto. Il pubblico ha assistito a corse, spasmi, cadute e risalite e quello che ha penalizzato il tutto è stata la mancanza di una forte tecnica. Emozione? Potrebbe essere stata lei la colpevole, non lo escludo.
Il regista belga Benjamin Abel Meirhaeghe ha sperimentato e come suo impeto rotto gli schemi e torna alle origini dove in una caverna nascevano le idee, i conflitti, l’amore, rigenerandosi.“Anche se spalanco le braccia non posso volare in cielo”, e così è stato, Benjamin ha spalancato le braccia, le sue, quelle degli artisti, le nostre anche, ma nessuno è riuscito a volare. Credo però, che questo il regista lo avesse messo in conto, il rischio c’era, ma Benjamin è talmente unico nel suo genere che forse il vertice della libertà dell’amore artistico è proprio raggiungere l’incomprensione. Così è stato. “La sanguigna vittoria, e le contese. I trionfi di morte horrida, e fiera” tutto è avvenuto così, infatti, il pubblico alla fine non aveva percepito quando iniziare l’applauso finale. L’intuito mi dice che questo era proprio il finale che Benjamin voleva realizzare.
Veronica Meddi