Un nuovo “Nabucco” debutta al Teatro Regio di Torino: una storia per riflettere
Da mercoledì 12 a sabato 22 febbraio, per un totale di ben dieci repliche, il protagonista del Teatro Regio di Torino è stato un nuovo “Nabucco”, organizzato in coproduzione col Teatro Massimo di Palermo. Dopo due inserti non certo dedicati alla massa – Il matrimonio segreto e Violanta – si torna su un repertorio che possa esercitare una più forte attrattiva, anche per coloro che magari all’opera vanno una tantum. E infatti dopo Nabucco, che peraltro era sold out già a settimane di distanza dalla prima, sarà la volta de La Bohème. Va comunque osservato che di questi tempi è ben più che opportuno rispolverare gli spartiti di chi ha fatto gli italiani mentre altri erano impegnati a fare l’Italia, non certo per rivangare le ideologie nazionaliste che oggi non hanno più ragion d’essere, ma per riflettere sugli snodi ove la cronaca si sostituisce al mito: il clima feroce dell’attualità riporta, per esempio, a eventi quali la distruzione di Palmira, in Siria, dove da secoli si rimpiange una certa Zenobia. Tempi bui, insomma, durante i quali Giuseppe Verdi può tornare per soccorrerci e, insieme ad altri, chissà, magari anche salvarci.
Nonostante la fama di quest’opera, val comunque la pena di indugiare brevemente su una sinossi: siamo a Gerusalemme, e gli ebrei sono assediati dai babilonesi, ma il pontefice Zaccaria ricorda ai fedeli raccolti nel tempio che c’è ancora una carta da giocare. Fenena, la figlia del re babilonese Nabucco, è loro ostaggio. Però la fanciulla è innamorata di Ismaele, erede al trono della città santa, col quale tenta di fuggire. Ma entra in scena Abigaille, presunta sorella di Fenena, che ricatta Ismaele: se il ragazzo lascerà la sua amata, lei risparmierà gli ebrei. Ismaele rifiuta, e Abigaille (che peraltro è segretamente innamorata di lui) giura che si vendicherà. Nabucco irrompe nel tempio, Zaccaria minaccia di uccidere Fenena, ma Ismaele la libera: i babilonesi saccheggiano il tempio e gli ebrei maledicono il traditore. Ovviamente, dopo varie peripezie ed altrettanti intrighi, tutto si rovescerà, tanto che infine Nabucco diverrà il salvatore degli ebrei. Ora, è chiaro che il valore squisitamente risorgimentale dell’opera vede una corrispondenza tra ebrei e italiani così come tra babilonesi e austriaci, anche se poi la nostra penisola non ha mai visto un oppressore redimersi e liberarla. Nabucodonosor, per gli amici Nabucco, è l’espressione di una pacifica ed agognata assennatezza mai raggiunta dagli umani, che quasi per noia continuano a perseguitarsi l’un l’altro in un assurdo moto inerziale di violenza gratuita, disutile e pleonastica. E la sua potenza deflagra con la forza della libertà auspicata e mai vissuta, tanto che (Mameli permettendo) l’elegia di tanti italiani rimane Va, pensiero, sull’ali dorate.
Alla regia questa volta troviamo il toscano Andrea Cigni, che ha voluto restituire una storia prima di un’opera: la narrazione, con lui, si articola con equilibrio attraverso i contenuti, i simboli, le icone. La trama versificata di Temistocle Solera rivive e risplende per un pubblico eterogeneo; sicché la resa forse non sconvolge, ma di sicuro appaga. Le scene di Dario Gessati si rivelano a tratti funzionali alla regia, a tratti invece scompaginano l’immaginario mediorientale comune e con audacia propongono soluzioni particolarissime: lo stravagante trono roccioso di Nabucco, simile ad un carro armato ma anche ad una navicella spaziale; la parete che nel secondo atto cita apertamente un quadro di Kounellis (Charta. Dal papiro al computer, 1988); l’enorme testo ebraico proiettato tra ombre e fari nella scena finale. Lo spazio plasmato da Gessati si allontana dal repertorio comune di immagini, eppure riesce anche a mantenere la vicenda in un’ambientazione che riferisce senza dubbio ad un contesto specifico. Lo stesso si potrebbe dire per i costumi di Tommaso Lagattolla, sempre in bilico tra la prassi e la baldanza, tra la consuetudine e l’ardimento. Lodevolissime, per giunta, le luci di Fiammetta Baldisserri. Gli spettatori, dunque, grazie al trio Cigni, Lagattolla e Baldisseri possono cogliere l’occasione per bearsi di un’estetica sincera mentre rinnovano la loro inevitabile stima per uno spartito superbo, qui diretto da Donato Renzetti, un direttore così oculato e mai pedante, rigoroso e attento senza pignoleria alcuna. Quanto all’interpretazione, i complimenti devono convergere innanzitutto sulla soprano Csilla Boross, splendida e spaventosa nei panni di Abigaille. Convincono poi, per la loro allure, lo Zaccaria di Riccardo Zanellato, la Fenena di Enkelejda Shkosa, l’Ismaele di Stefan Pop. Didascalico e profondo il re babilonese che emerge con Giovanni Meoni. Encomiabilissimo, infine, il coro diretto da Andrea Secchi.
Davide Maria Azzarello