Roberto Latini in un Cantico d’amore
Disteso su una panchina a dondolo, avvolto da una lunga marsina violacea, grandi cuffie nere sul ventre, trucco ben evidente a disegnare occhi e labbra. È così che ci appare Latini ancor prima che lo spettacolo abbia inizio. La sala del Teatro Vascello, che ospita fino al 20 ottobre una triade di lavori tutti firmati Fortebraccio Teatro, è racchiusa da un morbido tendaggio scuro; al centro una cornice vuota inquadra la consolle e come una finestra si affaccia direttamente sullo spettatore.
Alla destra della postazione si scorge il busto di una donna con una parrucca verde e riccia. Vicino la cornice-quadro c’è una pianta. L’artista che ricorda nell’aspetto un clochard, guadagna la scena sulle note dei Placebo (Every you, Every me) e si avvicina alla cabina radiofonica di un’immaginaria trasmissione che è ora illuminatadall’insegna ‘On Air’. Quando la stravagante figura cala le cuffie, grazie ad un marchingegno acustico, il volume rimbomba con una potenza elettrizzante e in un attimo siamo proiettati nella testa dell’attore per assistere al flusso tumultuoso di parole che questa sera ”perderà” sul palco insieme a noi. Innestando l’aura alta del Cantico dei Cantici su una parodia della Voix humaine di Jean Cocteau, Latini ricama un canto d’amore sublime e disperato al tempo stesso, un idillio rarefatto e drammatico dalla bellezza dilaniante che viene alla luce attraverso strappi di tenerezza. Attribuito al re Salomone, celebre per la sua saggezza, per i suoi canti e anche per i suoi amori, il Cantico dei Cantici è stato composto non prima del IV secolo a.C. ed è uno degli ultimi testi accolti nel canone della Bibbia. Un canto d’amore universale sospeso tra il cielo e la terra, tra il sole e l’ombra dei cedri e dei ginepri, tra l’abisso umano e il balsamo della preghiera. Un inno umile e regale all’ebbrezza
del vino che si mesce nelle coppe d’oro, alle cime d’erbe odorose che partoriscono i frutti succosi. Il disc jockey dalle movenze conturbanti tiene ora tra le labbra una sigaretta, poi tra le mani un giglio di plastica. Balla ”A Far l’amore comincia tu”. Siamo rapiti da questa presenza androgina che arsa dal desiderio erotico alza la cornetta di un vecchio telefono senza filo che non dà risposte. Come l’incontro tra due amanti che avvicinano le bocche per bersi l’un l’altro, ma poi non consumano il gesto. I respiri, i silenzi, le pause, si alternano, entrano nel microfono, si fondono all’unisono fino a lasciare il posto alla soave voce della Deborah di C’era una volta in America : ”Il mio diletto è candido e rosato, le sue guance sono oro sopraffino, il suo collo è uno stelo soavissimo anche se non se lo lava dalla Pasqua passata. I suoi occhi sono occhi di colomba, il suo corpo risplendente avorio e le sue gambe sono due colonne di marmi in calzoni così luridi che stanno in piedi da soli. Egli è tutta una delizia, ma sarà sempre un teppista da due soldi, perciò non sarà mai il mio diletto…che peccato!”. Come ha più volte precisato Latini, in questa messinscena ha cercato di non trattenere le parole, per poterle dire, di andare poi a cercarle in giro per il corpo, di averle lì nei pressi, addosso, intorno; ha provato a camminarci accanto, a prendergli la mano, ha chiuso gli occhi e, senza peso, a dormirci insieme. Mentre le musiche intarsiano l’oasi sonora realizzata da Gianluca Misiti, e la voce di Deborah continua a ripetere ossessivamente «Che peccato! Che peccato!» Latini, tappandosi le orecchie, riprende a recitare il Cantico senza più supporti tecnologici, fino a ostentare una totale nudità dell’anima. Verso la fine la voce riconquista i microfoni fino a toccare altezze davvero notevoli. Un’estasi della parola che si fa vertiginosa e funambolica, vivo palpito della carne. Nell’ultima manciata di minuti l’uomo che abbiamo davanti, sfinito, grondante di sudore, ci ricorda che ”solo un’anima piena di disperazione può raggiungere la serenità, e per essere disperati, bisogna aver molto amato il mondo e continuare ad amarlo ”perché forte come l’amore è la morte”.
“Che peccato!”, sussurra Latini, mentre la sua voce ci dissolve. Ci ha scongiurati di non risvegliare il suo amore che dorme, ma in fondo, ne siamo certi, non vorremmo svegliarci nemmeno noi.
Diana Morea