Venere e Adone: la confessione di un poeta
Giorgio Colli scriveva: “Sapiente è colui che getta una luce nel buio del passato (…) L’artista non imita nulla, non crea nulla. Ritrova qualcosa nel passato”. E la finestra dei ricordi per Roberto Latini continua a essere spalancata sul presente, come se il tempo non fosse mai esistito. Al Teatro Vascello di Roma, in occasione del suo “Venere e Adone. Siamo della stessa mancanza di cui sono fatti i sogni”, in scena dal 6 all’8 maggio, ha rinnovato ancora una volta quella promessa fatta anni fa al Mulino di Fiora, quando non sapeva che di lì a poco il teatro sarebbe diventato un destino.
Venere e Adone, uno dei testi meno conosciuti di Shakespeare, fu composto nel 1593 quando la città, infestata dalla peste, dovette chiudere i suoi teatri per evitare il diffondersi dell’epidemia. Ispirato al decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio, nel poema il comico si catapulta nel tragico e viceversa. La Venere di Shakespeare è pazza d’amore, e Adone è un giovane bellissimo che preferisce i piaceri della caccia alla dea. Nonostante gli avvertimenti della donna, il giovane parte per una battuta di caccia al cinghiale che lo azzanna provocandogli una mortale ferita all’inguine. Venere accorre, ma è troppo tardi: non le resta che trasformare il sangue dell’amato esanime nei rossi fiori dell’anemone. Latini costruisce il racconto immaginando che ogni personaggio – Venere, Adone, il cinghiale – abbiano da dire la loro, evocando circostanze. Ci appare all’inizio come un angelo sopravvissuto ai colpi inferti da una sorte avversa. Le ali hanno perso il folto piumaggio, ne scorgiamo ora solo lo scheletro. Un’armatura metallica avvolge il torace, l’asta del microfono si incunea al centro dell’arco retto tra le mani, sempre pronto, nonostante la lunga traversata, a scoccare i suoi dardi poetici. Emerge dall’oscurità, grazie a rapide e improvvise accensioni ad opera di Max Mugnai, come l’Angelus Novus di Klee, con lo sguardo fisso, sospinto in avanti dalla bufera degli eventi. Ha superato il turbine della modernità, “l’inverno del nostro scontento”, restando sempre fedele alla libertà della poesia teatrale e alla responsabilità dell’attore, così come li aveva appresi dalla sua maestra Perla Peragallo, tra una scena inventata e un’alzata d’occhi.
Costruire un repertorio, vivendo dentro una battaglia, disseminata quasi sempre di no, per cercare il modo di stare in scena, e di reagire ad essa, facendo del palco una condizione fisiologica costante. Quella a cui assistiamo “è la storia di ferite mortali, di baci sconfitti che non sanno, non riescono a farsi corazza, difesa. Eppure, amore cadendo, fa un volo infinito”. Dagli dei al divino, a quanto manca, a quanto non esiste. Latini scrive una pagina di autobiografia, la confessione di un poeta. Il suo è un teatro così contro rappresentativo, così senza io, che guasti e cortocircuiti vari sono garantiti. Ma ogni poeta guasta sempre qualcosa, perché la poesia è rischio mortale. I versi di Shakespeare diventano strumenti per bucare l’essere, per farsi cassa di risonanza e trascinarci a capofitto nei vuoti del cuore, nelle zone ignote di quel mi fa male l’anima, in grado di generare lacerazioni segrete, piccoli sussulti di esistenza. E la Compagnia Fortebraccio lo fa ricorrendo alla strumentazione fonica, considerando la sintassi sonora come bagaglio indispensabile dell’attore, con un puntuale lavoro sull’amplificazione, collaudato negli anni insieme a Gianluca Misiti, non per allargare la parola, bensì il ventaglio della dinamica, restituendo così alla voce la sua cavità interna, e facendo zampillare quella voce interiore, che come murata viva, si dà all’ascolto. L’elettronica non si limita dunque a vestire la voce, è essa stessa la voce nelle sue acrobatiche piroette, mentre saltella tra RE e MI, tra respiri e sospiri, tra invocazioni e distorsioni, servendosi della mobilità del corpo per scoprire differenze e contraddizioni.
Momento intenso, quello affidato alla canzone scritta per Mina da Ivano Fossati “Luna diamante”, il cui lirismo richiama con dolcezza quei gesti trattenuti tra vivi e morti, gli adii tra cari che avvicinano le bocche come per bersi l’un l’altro, bevanda a bevanda, ma poi non consumano il gesto, gli amanti in cui si infiltra qualcosa dell’essenza angelica. La preghiera carnale si fa volo dell’attore, brividi, ferite avvelenate e mai comunicate, silenzio imploso, costretto, senza lingua. Voler mostrare la verità nuda turba come una passione, come una lettera senza risposta. Eppure amare, malgrado tutto, resta l’unica via per dare sostanza ai sogni, all’immaginazione, all’incanto.
Diana Morea
Foto di Paolo Cortesi