STRIA – Suono, musica e parola al Teatro Menotti di Milano
“Ciò che hai visto ricordalo, perchè ciò che dimentichi è destinato a tornare nel vento”. Il detto risale agli indiani Navajo, sagge voci dal respiro antico. Lo stesso suono delle radici che, fatte le debite proporzioni, ha la sua eco nei dialetti italiani, che portano con sé una feconda matrice drammaturgica. Immediatamente viene alla mente quella meridionale, o il suono delle lingue delle terre di confine ma anche il dialetto lombardo ha trovato la propria collocazione sui palcoscenico, il cui padre è ben identificabile e di fatto univoco: Giovanni Testori. È la lezione del drammaturgo novarese a saltare agli occhi in Stria, in scena al Teatro Menotti. In particolare per il recupero scenico di una lingua che coagula elementi dei dialetti lombardi punteggiandosi di italiano solo quando è indispensabile alla comprensione e fluidamente inseribile nel tessuto drammaturgico, restituendo esistenza alla lingua locale che forse si è persa nell’uso.
Una lingua per storie che affondano radici lontano. Storie come quelle che, tra Cinque e Seicento, vedevano il territorio insubre – tra Milano e i confini svizzeri – luogo di boschi popolati di strie. Streghe, da torturare e bruciare sul rogo. Rusina è una di loro. Una contadina, poco più di una bambina, che gioca a vivere fino a quando la spietatezza della realtà, le piomba addosso con più forza di quanta sia pronta a capire, nelle forme di un uomo e sulla pelle dell’amata amica Cosima, che la precipitano in un gorgo senza possibilità di risalita. Così, la frattura tra passato e presente si salda, e le streghe dimostrano ciò che sono sempre state, fuori dalla maschera posticcia e opportunistica della superstizione o di una fede piegata alle necessità delle istituzioni: donne scomode, pronte all’azione. Donne che il potere ha fretta di condannare al silenzio e alla colpa.
Claudia Dondoni costruisce un’architettura suggestiva che lavora in primo luogo sui suoni. Quelli del dialetto si intessono ai suoni quasi salmodiati della natura e della tradizione, dialogando col pianoforte onirico e lieve di Giovanni Bataloni, che suona dal vivo facendo dei suoi suoni parte del bosco che prende spazio sulla scena, che il gioco di poche luci e molte ombre di Massimo Barili disegna con vividezza.
Ne emerge un lavoro di forte impatto emotivo, cui Claudia Dondoni offre un’interpretazione di grande intensità in cui anche il corpo diventa efficace strumento scenico soprattutto nelle movenze, pur rinunciando a riempire lo sguardo per calamitare lo sguardo stesso sul suo agire. E in effetti sa polarizzare l’attenzione, mentre il resto resta fuori dalla scena, dialoghi e vissuti sono già trasformati in racconto, in flashback, e forse proprio da questa misura narrativa, che fa eco alle cupe leggende antiche, verosimili nella loro sincerità quando non vere, come lo è la storia di Rusina e Cosima, che delle leggende antiche ha la stessa funzione. Condurre all’empatia per garantire la memoria.
Chiara Palumbo