Orfeo ed Euridice, o della libertà di scegliere
Il mito di Orfeo ed Euridice come pochi altri ha trasceso i secoli, prestandosi a una pressoché incalcolabile quantità di letture, interpretazioni, riscritture. In quella di Eco di Fondo, in scena nel corso della loro personale serie ospitata al Teatro Elfo Puccini, Caronte parla siciliano, e i due giovani si chiamano Giacomo e Giulia. Conosciuti in Sicilia, amati con la fretta e l’intensità della giovinezza, sembrano presi direttamente da una commedia romantica, con tanto di scene al rallentatore e quotidianità zuccherosa. Fino a quando la vita irrompe, e la tragedia di un amico mostra che niente è scontato, tanto meno la serenità. Fino a una mattina d’inverno, a una lastra di ghiaccio su cui l’auto sbanda e la luce si spegne. Giulia si trasforma in Euridice, nell’Ade asettico di una terapia intensiva. E la freschezza del testo di Cesar Brie si fa spietata, i gesti dolci lasciano posto agli strappi dello sforzo di tenere una giovane donna attaccata alla terra. Mentre la disperazione impotente di Orfeo non ha più parole, neanche quelle di Battiato, perché la voce del suo amore arrivi a sua moglie. Gli è rimasto un solo modo per farlo. Rispettare la promessa che le aveva fatto: non costringerla a una stasi che non fosse più vita. Il tempo passa, ma Giacomo non ha fatto i conti con un mondo che di parole invece ne ha tante, troppe. Quelle dei medici, che gli spiegano che: “Il diritto alla vita vale di più del suo di rispettare la volontà di lei”, anche se quella per lei non sarebbe mai stata vita. Quelle della gente che, fuori da quelle porte, lo chiamano assassino.
Una messa in scena lineare, costruita intorno a quello che Isabel Allende ha chiamato “il corridoio dei passi perduti”, Giacomo Ferraù e Giulia Viana affrontano elegantemente e con garbo un tema potente come quello della possibilità di decidere di sé, dando corpo a un lavoro che evoca in modo molto vistoso, richiamando nei dettagli, la vicenda di Eluana Englaro e della sua famiglia, assurta a paradigma. Senza forzare la mano riporta in scena le voci note e quelle che nessuno ha sentito, da ciò che era stato prima alla parola di chi esigeva che il momento pur più doloroso della sua vita non fosse “un momento privato da consumarsi in silenzio”, come pure gli era stato suggerito. Sono occorsi diciassette anni, per Beppino e per Giacomo, perché un giudice desse loro il diritto di rispettare una promessa. Quasi due decenni durante i quali, mentre la vita procede, il corpo di una donna amata si trasforma in oggetto manipolato per routine, mentre i parenti dei tanti senza nome nella stessa condizione sognano su gesti involontari che loro stessi hanno creato. Fino a dare la parola a colei che vuole solo essere “nuda, spudoratamente nuda, nella grigia bellezza che mi avete messo addosso senza avermi mai guardato”.
Ne risulta un lavoro che si confronta con una pagina di attualità dirimente pur concedendosi molto al didascalismo, forse anche in ragione del fatto che un argomento tanto importante chiedeva di astenersi dal belletto. Senza possibilità di distrazione, le corde dell’empatia sono chiamate in causa con mano pesante, e non è più possibile allontanare da sé la dimensione della scelta di un Orfeo che sceglie. Sceglie di voltarsi, per liberare Euridice – non viva, non morta – dal suo calvario.
Chiara Palumbo