“Ray. Con tutta quell’acqua a due passi da casa” al Teatro Libero di Milano
L’omissione possibile di Raymond Carver
Questo “Ray. Con tutta quell’acqua a due passi da casa”, in scena al Teatro Libero di Milano, è il primo capitolo della nuova trilogia dedicata al Sogno Americano che porterà le tre Compagnie Teatro del Simposio, Chronos 3 e Duchessa Rossa a rielaborare nel loto stile grandi autori americani: in questo caso Raymond Carver e prossimamente Tennessee Williams e Truman Capote. L’intento, in linea con la cifra che caratterizza le tre Compagnie, è di sperimentare dal punto di vista sia registico sia drammaturgico linguaggi teatrali nuovi e diversi.
La decisione di iniziare con Raymond Carver, apparentemente molto coraggiosa se non temeraria, si dimostra una scelta vincente. Vediamo perché. La drammaturga Giulia Lombezzi mette sulla stessa scena i due protagonisti di uno dei più noti racconti di Raymond Carver (“Con tutta quell’acqua a due passi da casa”) insieme allo scrittore stesso (interpretato da Mauro Negri). Carver, presente sul palcoscenico sin da prima dell’arrivo degli spettatori, nel raccontarci la sua storia interagisce con quella dei personaggi di cui è testimone e artefice: un uomo, Stuart (Ettore Distasio), “pescatore della domenica”, e una donna, Claire (Ilaria Marchianò), moglie alle prese con un marito reticente e indifferente. Dopo una bellissima scena iniziale, con un trasparente ed emozionante omaggio alla colonna sonora del film di Robert Altman “America Oggi” (Short Cuts, anch’esso proprio dai racconti di Raymond Carver), inizia il dialogo/non dialogo nel quale Stuart racconta, con evidente indifferenza, di come durante il weekend di pesca insieme ai suoi tre amici sia avvenuto un fatto. Nessun aggettivo, un fatto. Tra uova al tegamino, whisky e sigarette, emerge la storia terribile del rinvenimento, da parte dei quattro pescatori, del cadavere di una ragazza nell’acqua del fiume lungo il quale hanno serenamente trascorso alcuni giorni senza che questo abbia influito più di tanto sui loro piani. A essere sconvolta da tanta indifferenza, sempre più mano a mano che, come il cadavere viene a galla la verità agghiacciante di questa storia, è Claire.
Le scelte, precise e indovinate, del regista Francesco Leschiera ci restituiscono l’essenza delle cose e “tempi” teatrali che, in controtendenza rispetto alla verbosità dilagante di certi testi, lasciano spazio creativo anche al pensiero di chi assiste. La scrittura stessa di Carver, la cui lettura può invece risultare per alcuni particolarmente ostica, ne guadagna. I vuoti, i tempi lunghi, le pause pesanti si riempiono sulla scena di significato, e lo spettatore ha il tempo di “fare la sua parte”, di rielaborare e riempire di senso quei vuoti. Tornando al tema del perché la scelta di mettere in scena “così” un autore come Raymond Carver si riveli vincente, è necessario fare riferimento alle relazioni pericolose che possono instaurarsi tra testo letterario e trasposizione teatrale. Due i “rischi” principali: il tradimento del testo; il “fare letteratura” e non Teatro (pericolo che vale per tutti, anche per i testi di Shakespeare, citando ad esempio il pensiero di Alessandro Serra…). “Ray” dimostra un sorprendente rispetto per l’autore, protagonista anche lui sella scena, e soprattutto per il testo, portandolo a una dimensione teatrale che, come fa Carver, asciuga, disaggettiva e comunica (ci parla) “per sottrazione”. Un sottrarre che semplifica e aggiunge.
L’epitaffio voluto sulla sua tomba dallo stesso Carver è un bilancio altrettanto semplice, preciso e solo apparentemente minimalista del significato della vita. È contenuto in una poesia da lui scritta a quarantanove anni, poco prima di morire di cancro ai polmoni:
“E hai ottenuto quello che volevi da questa vita,
nonostante tutto?
Sì. E cos’è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi amato sulla terra.”
A.B.