“90 minuti”: La tragica storia di Arpad Weisz al #fACTORy32 di Milano
Punto 9: “Gli Ebrei non appartengono alla Razza Italiana […] – Gli Ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani”. Il Manifesto della razza – 1938,da “La difesa della razza”, direttore Telesio Interlandi, anno I, numero 1, 5 agosto 1938.
Quando venne pubblicato, nel 1938, il Manifesto degli scienziati razzisti (o Manifesto della razza) anticipò di poche settimane la promulgazione delle leggi razziali fasciste del settembre-ottobre. Firmato da alcuni dei principali scienziati italiani, Il Manifesto fu la base ideologica e pseudo-scientifica della politica razzista dell’Italia fascista. Il solo sapere che un simile manifesto possa essere stato davvero scritto, che leggi disumane ne siano seguite, che atrocità indicibili siano state commesse in nome di semplici parole d’inchiostro può teoricamente, e auspicabilmente, turbarci ancora oggi; ma “toccare con mano” il manifesto, distribuito in Sala durante lo spettacolo, leggere direttamente sulla carta l’abominio di queste parole, mentre risuonano lette da uno dei personaggi protagonisti di “90 minuti”, non può che sconvolgere le coscienze degli spettatori presenti.
Il testo inedito di Antonello Antinolfi, messo in scena con la consueta semplicità e riconosciuta maestria da Francesco Haschen Leschiera, vede protagonista la storia vera, e non da tutti conosciuta, di Arpad Weisz, giocatore e poi allenatore di calcio capace di vincere prima uno scudetto con l’Ambrosiana (oggi Inter) e poi addirittura due con il Bologna, contribuendo a creare il mito dello “squadrone che tremare il mondo fa”. Il suo Presidente, un Renato Dall’Ara ruspante e intraprendente che è tra i personaggi dello spettacolo, venne imposto proprio dal Partito Fascista bolognese, e dopo le leggi razziali non si fece particolari scrupoli nel lasciar andare via Arpad, prima a Parigi e poi in Olanda, dando così avvio alla sua odissea. Nell’Italia del 1938 Weisz diventa, improvvisamente, soltanto un ebreo. Anzi, un ebreo di nazionalità straniera. Nell’allucinante epoca delle leggi razziali non contano più doti e talenti: si diventa un numero senza importanza e tutti si adeguano senza avvertire il minimo disagio. Quando accadde nessuno fiatò, nemmeno a Bologna, la città che le imprese della squadra di Weisz avevano reso celebre in tutta Europa. Non fiatò, come detto, il presidente Renato Dall’Ara, che regnò oltre trent’anni e a cui ancor oggi è dedicato lo stadio di Bologna (solo recentemente ad Arpad Weisz è stata dedicata la Curva rossoblù). Non fiatarono i dirigenti, non fiatarono i suoi giocatori, non fiatarono i tifosi, che lo avevano osannato. Non dissero nulla i suoi colleghi allenatori, non commentarono i giornalisti che ne avevano raccontato per anni le gesta. E non fiatarono nemmeno i genitori dei compagni di scuola di suo figlio quando improvvisamente non si presentò più a scuola, né dissero nulla i suoi vicini di casa. Tutti, prima la sua famiglia (la moglie Elena e i figli Roberto e Clara) e poi a distanza di anni lo stesso Arpad Weisz, morirono nelle camere a gas di Auschwitz.
I bravissimi Ettore Di Stasio e Mauro Negri ci raccontano, anche attraverso i personaggi incontrati da Arpad Weisz, questa terribile parabola, che può condurre dal paradiso all’inferno senza che sia possibile fare nulla per impedirlo. Lo spettacolo ci fa riflettere, più che sulle vittime e sui carnefici, sulle complicità che consentono che ciò possa accadere. I passi di marcia, gli stivali che si sentono lontani in sottofondo, nel campo di prigionia, sono in realtà i nostri, piuttosto che quelli delle SS. Non esiste un luogo sicuro; la felicità è passeggera, soprattutto se non ci curiamo di ciò che apparentemente riguarda gli “altri”; che sia un’altra razza, un’altra religione, o qualcos’altro, questo “altro” potremmo essere noi. Oggi, oppure domani.
Un messaggio chiaro, che Arpad Weisz ci consegna raccontandola al suo compagno di campo di prigionia nei suoi ultimi 90 minuti e che, grazie a una messa in scena toccante ed efficace, non deve e non potrà lasciarci indifferenti.
Andato in scena dal 29 novembre al 1 dicembre al teatro fACTORy32 di Milano.
A.B.